I MERCATI: cosa sono?

Area volta al confronto inerente l'attuale sistema monetario

Re: I MERCATI: cosa sono?

Messaggioda ChristianTambasco » 02/01/2012, 19:44

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Re: I MERCATI: cosa sono?

Messaggioda ChristianTambasco » 20/02/2012, 12:31

fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-02-19/misteriose-regine-trading-140231.shtml?uuid=AaiYjFuE

quelli che affamano...
Le misteriose regine del trading che controllano mille miliardi di dollari $ in materie prime e dettano i prezzi
di Marco Magrini, 19 febbraio 2012

Il merger dell'anno è ancora appeso agli incerti umori degli azionisti. Ma se i termini della fusione da 90 miliardi di euro fra Glencore, la seconda trading house del mondo, e Xstrata, un colosso minerario, potranno forse essere rivisti, nessuno dubita che i rispettivi amministratori delegati – Ivan Glasenberg e Mick Davis, entrambi sudafricani – abbiano la ferma intenzione di condurre in porto il mega-affare. Gli azionisti di Xstrata contestano il prezzo, giudicato troppo basso. «Dobbiamo agire in fretta – ha detto Davis ai grandi soci, durante una riunione alla City di Londra – perché dovremmo perdere questa opportunità?».

L'opportunità è quella di diventare giganti in un momento in cui la fame planetaria di materie prime, dopo aver già regalato un decennio d'oro ai grandi trader, promette un'altra lunga galoppata sulle praterie della globalizzazione. Secondo l'Agenzia internazionale dell'energia, il fabbisogno di carburanti per il trasporto aumenterà dell'80%, da qui a fine secolo. Secondo la Fao, la produzione alimentare dovrà crescere del 70%. E le incertezze che punteggiano il mondo sono sempre lì pronte ad offrire quel che agognano i grandi trader: la volatilità dei prezzi, il sale e il pepe della speculazione. Anche se nel 2011, questo va detto, i profitti di alcuni (inclusa Glencore) sono scivolati.

Questi gruppi, tutti dotati di potenti trading desk, ma anche di magazzini, flotte e stabilimenti sparsi per il mondo, sono grandi per davvero. Glencore controlla il 55% dello zinco e il 36% del rame mondiale. Nel 2010, Vitol e Trafigura – due trading house con sede in Svizzera – hanno venduto mediamente 8 milioni di barili di petrolio al giorno, più delle esportazioni dell'Arabia Saudita. E le cosiddette ABCD – ovvero le americane Adm, Bunge, Cargill e la francese Dreyfus – tengono in pugno le commodities alimentari: controllano fra il 75 e il 90% dei cereali mondiali.

Secondo i calcoli della Reuters, nel 2010 le prime dodici trading house del mondo hanno fatturato mille miliardi di dollari, dopo quasi dieci anni di crescita, spinta dai consumi di Cina, India e Brasile. «La maggior parte dei trader prende il prezzo che trova», commenta Chris Hinde, direttore della rivista Mining Journal. «Ma le grandi trading house hanno la capacità di fare il prezzo. E questo le mette in un'invidiabile posizione di forza».
Della Glencore si è saputo qualcosa dallo scorso maggio, quando la compagnia – sin lì poco incline alla trasparenza – ha aperto le porte e i libri quotandosi a Londra e regalando nottetempo 10 miliardi a Glansenberg. Ma se i nomi di questi colossi non sono noti al grande pubblico come ExxonMobil o Nestlè, non è tanto per la lontananza dai consumatori finali. Quanto per una deliberata scelta di segretezza. «Prima di portare la mia azienda in Borsa, devono camminare sul mio cadavere», ha dichiarato più volte Charles Koch, che col fratello David controlla la quasi centenaria Koch Industries.

Forse il caso-limite è la Cargill, che se ne sta arroccata in una gigantesca villa di mattoni, dentro una foresta a un'ora di macchina da Minneapolis. In quasi 150 anni di storia, la famiglia Cargill ha trasformato un magazzino di granaglie in un gigante alimentare sul quale non tramonta mai il sole: con un giro d'affari di 108 miliardi di dollari, sarebbe fra le prime 15 aziende dell'indice Fortune 500. Se solo fosse quotata.

La Adm, meglio nota come Archer Daniels Midland, è quotata e, come un po' tutte le sue sorelle, è finita più volte sotto la lente dell'opinione pubblica e della magistratura. Solitamente i motivi sono due: operazioni di cartello o l'impatto sociale e ambientale delle loro attività. Il film «The Informant», con Matt Damon, racconta la vera storia di un illecito fixing dei prezzi da parte di Adm. E la solita Cargill, tanto per fare un esempio, è finita sotto accusa per l'eccessivo zelo nel trasformare la foresta pluviale brasiliana in campi di soia.

Tutte quante, peraltro, prediligono abitare in Paesi dove la tassazione è favorevole. Vitol, Glencore, Gunvor, Trafigura e Mercuria sono in Svizzera. Le americane hanno sede in Stati diversi, ma quella sociale è – guarda caso – nel Delaware. E anche la Louis Dreyfus ha sede a Parigi, ma fa trading dalla Svizzera e dall'Olanda.

Di fatto, grazie alla loro potenza operativa, le trading house hanno anche un peso geopolitico. Basta prendere la Vitol che, per essere un'azienda che maneggia 5,5 milioni di barili di petrolio al giorno, è sconosciuta al largo pubblico. Ma è stata proprio lei a organizzare l'acquisto di un milione di barili di petrolio libico dai ribelli anti-Gheddafi, lo scorso aprile. Operazione rischiosa e ai limiti della legalità, ma appoggiata dalla Casa Bianca.

Di sicuro, per stare in questo business bisogna avere un certo acume geopolitico. Ma anche profonda conoscenza del mercato delle commodities, e non solo perché l'insider trading (lo scambio di informazioni riservate) gode per così dire di un trattamento speciale. Bello è il caso del 2009 quando, in un certo momento, il prezzo per la consegna futura risultava più alto di quello da consegnare subito. E Koch, Vitol e altri pensarono bene di parcheggiare 100 milioni di barili di petrolio nei loro tanker, vendere future, aspettare e fare soldi: 10 dollari in più a barile.
Il peso strategico è tale che viene da chiedersi dove siano i cinesi, in questa storia. E la risposta, come sempre, è: stanno arrivando. La Repubblica Popolare ha investito nella Noble, una trading house di Hong Kong che in pochi anni è entrata fra le prime dieci al mondo. Ma anche Wilmar, Olam e Hin Leong, tutte e tre con base a Singapore, stanno emergendo grazie agli affari con la Cina. Così, tutti danno per scontato che è solo questione di tempo: la Cina scalerà anche queste vette.
Magari è per questo, che la fusione Glencore-Xstrata (già ribattezzata Glenstrata) è «un'opportunità» da cogliere in fretta: la corsa al gigantismo, serve ad occupare spazi competitivi, in un business dove l'opacità e la segretezza sono tanto utili quanto la spregiudicatezza.

Il papà di tutti i trader si chiama Marc Rich, fondatore della Marc Rich & Co. a Ginevra e maestro dei mercati delle commodities. Fino al punto di finire condannato per evasione fiscale e per aver comprato petrolio iraniano durante la crisi degli ostaggi americani. Mai tornato in patria, è stato perdonato da Bill Clinton nell'ultimo suo giorno di presidenza. Oggi la Marc Rich & Co., dopo un management buyout, si chiama Glencore. Già proprietaria del 35% di Xstrata, vuole incorporarla per diventare grande. Forse troppo: Eurofer, la confederazione europea dell'acciaio, ha detto venerdì di temere Glenstrata perché «potrebbe danneggiare la competizione sui mercati dello zinco, del nickel e del carbone».
Di sicuro, il processo di concentrazione andrà avanti. Sul mercato gira voce che la Gunvor, altra misteriosa società svizzera di proprietà di Gennady Timchenko (talmente vicino a Vladimir Putin da lasciare il sospetto che l'uomo forte della Russia sia nell'azionariato), sarebbe in vendita. Se così fosse, saranno i giganti a spartirsela.

Per il resto, il ristretto club da mille miliardi continuerà a far girare di nascosto il mondo: dai cereali della colazione, alla bistecca del pranzo; dall'accensione dell'automobile al tepore del riscaldamento. Fino alla prossima crisi dei prezzi (come quelli del cibo nel 2007 e quelli del petrolio nel 2008) in cui tutti devono dare la colpa a qualcuno. A cominciare dagli speculatori.
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Re: I MERCATI: cosa sono?

Messaggioda domenico.damico » 20/03/2012, 14:50

Questo articolo del sole 24 ore sembra confermare quanto detto sopra...


18 marzo 2012
In manovra i 40 «re» dei mercati finanziari. BlackRock rivaluta l'Italia e acquista i BTp
di Morya Longo

BlackRock a giugno considerava l'Italia il quinto paese più rischioso al mondo, su una lista di 44 Stati. E lo scriveva nero su bianco. A dicembre, dopo il cambio di Governo, ha però cambiato idea: oggi addirittura sovrappesa, dunque acquista oltre le proporzioni normali, i titoli di Stato italiani. La notizia non sarebbe di grande rilievo, se BlackRock non fosse la società di fondi d'investimento più grande al mondo: ha in gestione 3.513 miliardi di dollari. Insomma: maneggia somme una volta e mezza più grandi del Pil italiano.

Le sue scelte sono dunque in grado di mobilitare una quantità enorme di denari sui mercati finanziari. Tanto da far sorgere una domanda: BlackRock è in grado, solo per la stazza immensa, di influenzare i mercati stessi? Le sue decisioni potrebbero avere influito nella crisi prima, e nella salvezza poi, dell'Italia?

La stessa domanda potrebbe essere rivolta a molti altri giganti della finanza. I fondi pensione – secondo le stime di qualche anno fa di McKinsey – hanno in gestione nel mondo qualcosa come 25mila miliardi di dollari. I fondi comuni 18mila miliardi. Le assicurazioni 16mila miliardi. I fondi sovrani 5mila miliardi. Denari non equamente distribuiti, ma concentrati in pochi giganti che ne controllano la quota maggiore.

Ci sono poi le grandi banche, che fanno girare – direttamente o indirettamente – la fetta maggiore dei mercati finanziari: i primi 5 istituti americani detengono per esempio 310mila miliardi di dollari di derivati. Chiamateli «burattinai». Oppure «padroni dell'universo». O anche «elefanti nella cristalleria»: sta di fatto che, comunque si muovano, potrebbero influire sulla crisi o sulla salvezza di interi Stati, aziende o banche.

Too big to fail
I primi «padroni dell'universo» sono proprio le grandi banche. Non solo hanno attivi totali giganteschi: Barclays arriva a 2.167 miliardi di dollari (pari al Pil della sua patria, cioè la Gran Bretagna), Hsbc a 2.438 miliardi, Bank of America 2.221 miliardi. Ma il vero problema è che svolgono attività intrecciate, facendo girare somme enormi di denari.
Le grandi banche, per esempio, hanno in casa i maggiori fondi comuni: i fondi di Barclays e JP Morgan sono catalogati da McKinsey tra i primi dieci più grandi investitori del mondo. Contemporaneamente le stesse banche gestiscono i soldi propri, investendoli sul mercato. Ma svolgono anche il servizio di broker, intermediando per conto di clienti le compravendite di azioni, bond o derivati. Questo non permette loro di determinare i prezzi in senso stretto, ma di influire sul cosiddetto spread tra denaro (prezzi in acquisto) e lettera (in vendita): in questo modo possono, nei momenti di crisi, rendere illiquidi (cioè invendibili) determinati titoli.

Le grandi banche poi svolgono attività di prestito titoli: «Con il tasso d'interesse a cui prestano i titoli – osserva un addetto ai lavori – possono facilitare o meno le vendite allo scoperto. Dunque possono, indirettamente, influenzare le scelte degli hedge fund». Ebbene: con tutte queste attività intrecciate, può una banca determinare gli eventi finanziari? Sul mercato in tanti credono di sì. Tanti credono invece che la concorrenza annulli il potere di ogni singolo soggetto. Sta di fatto che, complice la mancanza di trasparenza sui mercati, il dubbio c'è. Il rischio anche.

I grandi fondi
E c'è anche per i grandi fondi. BlackRock è il maggiore. Oltre ad avere in gestione 3.513 miliardi di dollari (di cui però la metà in forma passiva legata ad Etf), il colosso vende a 200 investitori di tutto il mondo (che hanno 9.500 miliardi di attivi) il suo software di gestione dei rischi. Questo software è totalmente asettico: non dice – assicurano da BlackRock – come o dove investire, ma scompone semplicemente i rischi di ogni portafoglio. Eppure, indirettamente, potrebbe influenzare le scelte di allocazione di 9.500 miliardi di dollari: a seconda di come sono scelti i parametri – pur asettici – i 200 investitori potrebbero infatti comportarsi in maniera simile. Potrebbe questo, in certi momenti, determinare movimenti in massa? Da BlackRock lo negano. Ma, in fondo, non è possibile escluderlo.

Anche Pimco, il più grande fondo obbligazionario con 1.300 miliardi di dollari in gestione, nega di avere alcun potere di muovere i mercati. «La controprova – osserva Alessandro Gandolfi, country head in Italia – sta nel fatto che nel 2011 abbiamo puntato contro i T-Bond Usa, ma il mercato si è mosso nella direzione opposta rispetto alla nostra scommessa». Vero. Vero anche, però, che su mercati più piccoli l'impatto di una scelta di Pimco potrebbe essere maggiore. Vero inoltre che di esempi opposti (cioè di scommesse azzeccate da parte dei grandi fondi) ce ne sono a iosa.

L'effetto «pecoroni»
Il potere di questi giganti deriva anche da un altro aspetto: hanno una capacità di trascinamento, dato che quotidianamente pubblicano studi e opinioni. Ogni giorno ci sono azioni che salgono o scendono perché qualche banca d'affari ha raccomandato un «buy» (comprare) o un «sell» (vendere). Le stesse banche, o i grandi fondi, pubblicano anche studi sugli Stati. Report che se prodotti da piccoli istituti non vengono neppure letti, ma quando sono realizzati dai big della finanza producono effetti tangibili. Per un motivo banale: tutti sanno – soprattutto sui mercati azionari – che quei report influenzano le scelte di tanti soggetti. Così in tanti si adeguando.

Questo pone anche un altro interrogativo: i report sono sempre frutto dell'indipendente analisi di esperti, oppure servono per giustificare o rafforzare politiche delle banche? «Mi è capitato – confessa sotto tutela di anonimato al Sole 24 Ore un economista uscito da un istituto italiano – di non poter esprimere in pieno le mie opinioni, perché contrastavano con la politica della banca». «I report sono creati ad uso e consumo degli interessi della banca», osserva un altro addetto ai lavori. Queste sono solo testimonianze, e ovviamente se ne possono raccogliere altre di segno opposto. Ma lasciano comunque un sospetto: che i big della finanza possano muovere masse ingenti di soldi, "pilotando" poi le scelte degli altri – a proprio vantaggio – attraverso i report.

I signori delle pagelle
Veniamo così ai più famosi valutatori del mondo: le agenzie di rating. Loro non investono, non muovono denari. Eppure, con i loro giudizi, influenzano le decisioni di milioni di investitori. Motivo: tanti fondi sono vincolati, nei loro investimenti, dai rating. «Molti fondi hanno nei documenti costitutivi l'imperativo di tenere titoli valutati Tripla A – racconta Annachiara Marcandalli, managing director di Cambridge Associates –. Quando Standard & Poor's ha declassato gli Stati Uniti, tanti hanno dovuto adeguare gli statuti per non essere costretti a vendere T-Bond».
Il giorno che cambiare gli statuti non sarà più possibile, sui T-Bond partiranno vendite forzate. Stesso discorso per i BTp italiani: se venissero ulteriormente declassati, dall'attuale "BBB+", molti fondi sarebbero costretti a scaricarli. Tutto questo mette nelle mani delle agenzie di rating un enorme potere: ammesso (e non concesso) che i loro giudizi siano tutti impeccabili, il rischio è che in ogni caso le loro parole diventino profezie auto-avveranti. Sommando il loro potere a quello delle grandi banche e dei grandi fondi, tutto questo pone rischi potenziali di stabilità. Anche perché tutti questi soggetti, come si vede nella grafica, sono in gran parte intrecciati da legami azionari l'uno all'altro. Come in una grande ragnatela. In mezzo, però, c'è il mondo reale: cioè tutti noi.


Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/finanza- ... d=AbQJVBAF

BELLISSIMO IL GRAFICO:
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza- ... ml?grafici
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Re: I MERCATI: cosa sono?

Messaggioda domenico.damico » 24/04/2012, 13:46

Nell'articolo ho lasciato volutamente in secondo piano le agenzie di rating, considerando che ormai il loro ruolo e le loro funzioni sono oggetto di dibattito quotidiano.

Per chi vuole sapere di più c'è questa inchiesta di Repubblica che approfondisce la questione.

http://inchieste.repubblica.it/it/repub ... -33567858/

Lo spunto sia utile per inquadrare il discorso all'interno della cornice generale della moneta-debito e fare le proprie personali deduzioni.
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La crisi in un grafico

Messaggioda domenico.damico » 10/05/2012, 23:04

Un grafico interessante che riassume il ciclo in cui ci troviamo, e dove siamo diretti...

http://www.thetrader.se/wp-content/uplo ... tmoney.gif
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