Stati e Mercati

Questa sezione accoglie discussioni e segnalazioni su articoli usciti dai vari mezzi di informazione

Stati e Mercati

Messaggioda ChristianTambasco » 16/01/2012, 9:03

fonte: sole24ore Jp Morgan rassicura: dal 1998 nessun panico per i Paesi che hanno perso la Tripla A


tutti in fila...
Jp Morgan rassicura: dal 1998 nessun panico per i Paesi che hanno perso la Tripla A
di Vito Lops 15 gennaio 2012

La cancelliera tedesca Angela Merkel smorza i toni sul downgrade annunciato venerdì 13 da S&Poor's che ha tagliato, in un colpo solo, il giudizio sulla capacità di ripagare il debito di nove Paesi dell'Ue. «Il dowgrade riguarda solo una delle tre agenzie di rating». La stessa spiega che questa decisione non si tradurrà in un «torpedo» sui mercati finanziari. Ed è fiduciosa sulla capacità di Spagna e Italia di riconquistare la fiducia dei mercati.

La prova del nove arriverà fra poche ore. Lunedì mattina, infatti la Francia - che al pari dell'Austria ha perso la Tripla A in questa ondata di bocciature da parte dell'agenzia di rating statunitense - chiederà al mercato 8,7 miliardi di euro. La statistica lascia ben sperare. Secondo quanto rileva Jp Morgan, dal 1998 i rendimenti dei titoli decennali dei nove Paesi che da allora sono usciti dal club delle Triple A sono aumentati, in media, di appena due punti base la settimana successiva al downgrade. ovvero dello 0,02%. Se poi si guarda a quello che è successo ai Treasury bond statunitensi, all'indomani del downgrade di S&Poo'rs il 5 agosto scorso (che è costato la testa al capo dell'agenzia di rating Deven Sharma, dimessosi il 23 agosto) le aspettative sono anche migliori. In quel caso il rendimento dei titoli anziché salire - come la logica vorrebbe dato che un titolo con rating più basso è tecnicamente da considerarsi più rischioso e quindi a rendimento più alto - è sceso portandosi sette settimane dopo il downgrade al minimo storico dell'1,6714 per cento.

Ovviamente, gli Stati Uniti - secondo molti analisti - a proprio vantaggio hanno una Banca centrale (la Federal Reserve) autorizzata a stampare moneta in casi di emergenza (anche attraverso manovre di quantitative easing). Facoltà di cui non dispone, al momento, la Banca centrale europea, a cui anche Parigi fa capo.

Intanto, il presidente francese Nicolas Sarkozy, dopo il downgrade di S&P, è intervenuto per la prima volta promettendo di avviare nuove riforme per far fronte alla crisi. «La crisi - dice - può essere se avremo la volontà collettiva e il coraggio di riformare il paese». «Dobbiamo resistere - aggiunge - combattere, dobbiamo dimostrare coraggio e dobbiamo restare calmi». Sarkozy si impegna a pronunciarsi entro la fine del mese e assicura che spiegherà ai francesi «le importanti decisioni da prendere senza ritardi».


fonte: sole24ore Deregulation forte, Esm più ricco e Bce

Per qualcuno la situazione è delle migliori per...
Deregulation forte, Esm più ricco e Bce
di Fabrizio Forquet 15 gennaio 2012

Se ancora aveva dubbi, ora davvero Mario Monti li ha cancellati: le indicazioni di Standard & Poor's sono un ulteriore motivo per approvare già giovedì le liberalizzazioni in versione ampia, robusta, senza passi indietro. Va poi intensificata l'offensiva diplomatica europea per un rafforzamento dei fondi Efsf e Esm. E, non ultimo, l'Italia dovrà agire in tutte le sedi internazionali per escludere dalle regole pubbliche sulla vigilanza ogni riconoscimento delle agenzie di rating.

All'indomani del «poco comprensibile» declassamento dell'Italia, il presidente del Consiglio ha tenuto ieri un vertice con il Governatore Ignazio Visco, con il ministro dello Sviluppo Corrado Passera e con il viceministro dell'Economia Vittorio Grilli. Obiettivo: per fare il punto della situazione e studiare le prossime mosse, anche in vista dell'apertura dei mercati di domani.


Occhi puntati, innanzitutto, sull'apertura dei mercati di domani. Le preoccupazioni non mancano, ma c'è anche una fiducia fondata sulla considerazione che dal rapporto dell'agenzia di Manhattan non emergono fattori negativi nuovi sull'Italia. Al contrario c'è un riconoscimento della strada corretta su cui il Governo italiano si è incamminato. E d'altra parte i grandi operatori di mercato hanno cominciato da alcuni mesi a dare meno importanza ai giudizi delle agenzie, come dimostrato in occasione degli ultimi downgrade. In ultima istanza, poi, c'è sempre la rete di protezione della Bce che sarebbe pronta a scattare.

Questo non vuol dire che quanto avvenuto venerdì va ignorato. È uno stimolo. Uno stimolo prima di ogni altra cosa a tenere la barra dritta e approvare già giovedì un pacchetto robusto, credibile e strutturale di liberalizzazioni. Il comunicato di Standard & Poor's, in fondo, è il miglior testimonial e il miglior alleato del Governo sulla necessità di varare quel pacchetto senza cedimenti. Dopo i giudizi espressi dall'agenzia «sui rischi di una frenata in seguito alle pressioni dei gruppi di interesse», sarà più difficile infatti, per le lobby e per gli eventuali loro sostenitori nei partiti, provare a smontare il disegno ampio messo a punto dal Governo.

Barra dritta, dunque, sul programma di stimoli alla crescita economica già predisposto e illustrato in queste settimane. Sulle riforme europee, invece, serve davvero un cambio di passo. Qui il premier e il Governo sono determinati a rafforzare il pressing sui partner dell'Unione per accelerare gli interventi anti-crisi, nella consapevolezza di avere maggior forza dopo i declassamenti e l'analisi di Standard & Poor's. A questo punto è ovvio per tutti i Paesi europei, a cominciare dalla Germania, che le decisioni vanno prese con urgenza.

Quali decisioni? Il punto centrale per l'Italia è il rafforzamento dei fondi salva-Stati Esfs e Esm. È vero che i declassamenti possono portare a un aumento dei costi di raccolta, ma questo è un motivo in più per irrobustire con iniezioni di capitale e di operatività i due fondi. Venerdì ci sarà una nuova discussione su questo con i partner europei e ieri a Palazzo Chigi c'era un moderato ottimismo.

Ovviamente l'azione dei fondi da sola potrebbe non bastare. E la convinzione italiana è che serva un'altra gamba fondamentale per rendere efficace sui mercati il firewall europeo contro il fallimento dei Paesi dell'Unione. Questa gamba si chiama Bce. Ma solo se gli Stati, il Tesoro dei singoli Stati, avranno fatto la propria parte mettendo in piedi fondi di salvataggio credibili, la Banca centrale europea potrà con serenità intervenire nella propria autonomia.

Non va fatto alcun pressing su Francoforte, è la convinzione del Governo italiano. In nessun senso. Parte dei problemi dell'euro derivano proprio dalla percezione fuori dal continente di Stati e istituzioni divisi sui rispettivi ruoli e sulle rispettive responsabilità. Nessuna pressione dunque. Ma nel senso che alla Bce non va detto né quello che deve fare né quello che non deve fare. Quando i Fondi funzioneranno, si confida nel Governo italiano, la Bce nella sua autonomia farà la propria parte.

Infine il capitolo delle agenzie di rating. Al di là dei giudizi comunque positivi espressi sull'Esecutivo dei tecnici, sulla necessità che Monti non venga fatto cadere prima del tempo e sulla bontà della sua strategia di riforme, resta una profonda amarezza per un declassamento di due notches che è giudicato ingiusto e intempestivo (tanto è vero che i mercati stessi, nella giornata di venerdì, non hanno penalizzato più di tanto l'Italia).

Ma le agenzie sono istituti privati e come tali vanno presi. Non ha senso dichiarare loro guerra. E l'Italia non ha intenzione di farlo. Sono loro stesse, del resto, con i loro errori recenti a condannarsi da sole, perché stanno progressivamente perdendo la fiducia degli investitori privati. Una cosa però l'Italia la farà: premerà in tutte le sedi internazionali, lì dove vengono stabilite le regole della vigilanza internazionale, perché ogni riferimento formale alle agenzie di rating venga escluso. Come dire: Standard & Poor's e le sue sorelle sono soggetti privati che si giocano la loro credibilità sul mercato, ma nessuna legittimazione deve più venire loro dalle istituzioni pubbliche. E su questo a palazzo Chigi contano di avere, almeno in Europa, alleati importanti.


fonte: sole24ore La speculazione finanziaria «brucia» il capitalismo

privato sì... privato no...
La speculazione finanziaria «brucia» il capitalismo
di Guido Rossi 15 gennaio 2012

L'autorevole Financial Times ha recentemente iniziato una rubrica dal titolo "Capitalism in crisis", alla quale hanno finora contribuito con importanti saggi alcune personalità di spicco dell'economia, della politica e della letteratura. Era tempo che, fuori delle litanie esaltanti e dure a morire anche di fronte alle più evidenti realtà, o delle criminalizzazioni apodittiche, iniziasse una valutazione e un confronto serio sul capitalismo globalizzato e la sua crisi per discuterne i miti, dal libero mercato alla concorrenza, dalle liberalizzazioni alle privatizzazioni, dai bilanci degli Stati a quel che è bene pubblico e quel che è bene privato.

Ciò servirebbe anche a fornire qualche strumento alle odierne incerte politiche dei vari Paesi, appiattite spesso nel recepire ricette ideologiche dannose. Molti dei problemi sollevati dagli interventi sul Financial Times sono di grande rilievo e meriteranno approfondimenti. Tuttavia l'ultimo, sul quotidiano di ieri della scrittrice Arundhati Roy, tocca il problema che a me pare centrale, cioè quello del potere delle grandi Corporations e della deriva istituzionale che attraverso la loro crisi ha colpito il capitalismo. Ed è forse da qui che bisogna incominciare.


La grande società per azioni, a capitale diffuso e con azioni quotate è infatti l'istituto tipico del capitalismo dalla sua nascita a oggi. Con esso è nata e cresciuta, e ha sempre più allargato le sue funzioni e i rapporti con ogni tipo di mercati e con la politica di qualunque natura. È bene subito ricordare che la società per azioni, nata dagli Stati, ha ad essi assicurato la libertà dei commerci e il loro sviluppo economico, e ne fu spesso il loro braccio armato nelle conquiste coloniali e nello sfruttamento della schiavitù.

Tale indissolubile rapporto tra Stato e grandi società per azioni si è via via trasformato, fino a rovesciarsi completamente. Sono oggi infatti le società a soggiogare gli Stati, sia attraverso il condizionamento della classe politica e dei legislatori, come ben sottolinea con vigore la Roy, sia addirittura attraverso la multiformità dei loro tipi, che valutano gli Stati, speculando sui titoli del loro debito e provocandone l'insolvenza. Son queste pagine della cronaca odierna.

Due fenomeni hanno certamente provocato l'attuale situazione. Il primo è di natura politico-legislativa e va ricercato nella storia delle democrazie occidentali, dall'illuminismo in poi. Sono infatti gli Stati democratici che, attraverso politiche di deregolamentazione, hanno allentato progressivamente il loro controllo nei confronti delle grandi Corporations globalizzate. Il secondo fenomeno è di natura ideologica e fa parte della storia delle idee che, come diceva Keynes, nel bene e nel male sono le uniche a condizionare l'attività umana. Così han fatto con la politica, il diritto, l'economia, e alcuni fondamenti della civiltà occidentale. Si tratta del prevalere dell'idea che il mercato sia di per sé efficiente e non abbisogni di alcuna regola dall'esterno. È così che la società per azioni, che del mercato è la regina, abbandona la norma giuridica e finisce ad autogestirsi in un'anarchica totale libertà contrattuale. È bene ricordare a tutti che laddove è il contratto a far legge alle parti, la disciplina giuridica sparisce e si ritrae dietro le quinte.

Così tutto è cambiato. Tra i proprietari-operatori dell'impresa del capitalismo industriale, che cercavano di limitare la loro responsabilità nella raccolta dei capitali e gli azionisti dell'odierna grande società per azioni moderna, che investono indifferentemente e indiscriminatamente al di là e al di fuori di ogni conoscenza degli affari sociali, la differenza è invero enorme. È così che possiamo oggi dire che la società per azioni, che ha soppiantato la società anonima, è in realtà ben più "anonima" di quanto sia stata in passato, essendo i reali detentori del suo potere occulti al pubblico. Ma il loro potere è quello dei gruppi di controllo, guidati nelle loro ricerche di profitto dal piccolo oligopolio delle agenzie di rating, una sorta di opachi giudici della nuova Inquisizione del capitalismo finanziario, ricolma di conflitti di interesse epidemici e di smisurato potere. Assimilati nella stessa ricerca personale del profitto a ogni costo, sono spesso i manager, con le loro stock option, sovente manipolate con vari sistemi, che fan coincidere il loro interesse non certo con quello degli azionisti, nell'accezione tradizionale del termine, ma invece con quello degli speculatori, intenti ad arricchirsi nel breve termine, con scorribande rischiose sugli affari sociali.

È allora evidente che la società per azioni, istituto tipico del capitalismo, ha perso ogni identità istituzionale e si è trasformata in modo contraddittorio fino a diventare strumento, sia di strutture opache ed esclusivamente speculative, sia di politiche allargate e fuori di ogni tradizionale dimensione societaria, come ad esempio, nella legge sulle società della repubblica popolare cinese, dove, tra gli scopi e l'oggetto dell'ente vi è quello di "proteggere l'ordine sociale ed economico e di promuovere lo sviluppo dell'economia socialista di mercato".

La mia personale conclusione è che è bruciata, come nel mito la Fenice, la tradizionale società per azioni con tutti i suoi istituti e l'identità dei suoi attori e le cosiddette regole di governance che han cercato di tenerla in vita. Insieme a essa sta bruciando anche il capitalismo, incrinato da conflitti di interesse epidemici, che obbediscono solo a un potere dominato dalla speculazione e dalla ricerca del profitto a ogni costo. È dunque, fuori degli schemi consueti, che da questa deriva istituzionale la crisi del capitalismo deve essere affrontata.
...se vuoi ottenere qualcosa di diverso devi cominciare ad agire diversamente.
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Re: Stati e Mercati

Messaggioda ChristianTambasco » 16/01/2012, 9:19

L'austerità sui conti pubblici come un salasso del Medioevo

come fai fai sbagli...viva l'economia!
L'austerità sui conti pubblici come un salasso del Medioevo
di Paul Krugman 07 gennaio 2012

Sul Financial Times del 30 dicembre la giornalista Alice Ross sottolinea la forza dello yen rispetto all'euro, che attribuisce al "fatto che lo yen è riuscito a conservare lo status di rifugio sicuro contro le turbolenze finanziarie globali. La moneta unica ha perso lo 0,7% rispetto allo yen, scendendo, nell'ultimo giorno di contrattazioni dell'anno, a 99,97 yen; è la prima volta che l'euro va sotto la soglia dei 100 yen da giugno 2001", scrive Alice Ross.

Il Giappone è considerato un rifugio sicuro, nonostante il suo elevatissimo debito pubblico, come i Paesi che hanno conservato la loro valuta. C'è una caratteristica importante dell'economia del Sol Levante per capire la forza dello yen: l'interazione fra deflazione e tassi di interesse a zero.


Il Giappone si trova in una situazione di deflazione radicata, mentre la zona euro e gli Stati Uniti continuano a registrare un'inflazione attesa positiva, anche se modesta. Le aspettative di deflazione tendono a far scendere i tassi di interesse, ma i tassi a breve non possono scendere al di sotto dello zero e il tasso di interesse a lungo termine del Giappone deve in qualche modo rimanere al di sopra dello zero, perché contiene un valore di opzione: i tassi a breve possono salire, ma non possono scendere.

Il Giappone ha un'inflazione attesa di circa 2 punti più bassa di altri Paesi considerati sicuri, ma i tassi di interesse a lungo termine sono più bassi di solo 1 punto percentuale. Il tasso reale in Giappone è alto, ed è per questo che lo yen sale. La forza della valuta nazionale non è un elemento positivo per l'economia nipponica, perché il Giappone ha bisogno di incrementare le esportazioni e uno yen forte è di ostacolo da questo punto di vista. È un'altra ragione per sfuggire come la peste la trappola della deflazione.

Il chief economist dell'Fmi non è una Persona Tanto Coscienziosa. Questo è un titolo di merito, se si considera che le Persone Tanto Coscienziose si sono sbagliate su tutto. La cosa ancora più positiva è che Olivier Blanchard, nel suo ruolo di economista capo del Fondo monetario internazionale, sta contribuendo a stemperare la smania di austerità di almeno una delle grandi istituzioni internazionali.

Il suo articolo pubblicato sul sito dell'Fmi, dove spiega quel che è andato storto nel 2011, è pieno di buon senso. Se lo interpreto nel modo giusto, contiene una specie di bomba. «Gli investitori sono schizofrenici sul problema del risanamento dei conti pubblici e su quella della crescita», ha scritto Blanchard il 21 dicembre. «Prima reagiscono positivamente alle misure di austerity, dopo reagiscono negativamente quando le misure producono un rallentamento della crescita, come spesso succede. Alcune stime preliminari su cui l'Fmi lavora sembrano indicare che non servono grossi moltiplicatori perché l'effetto congiunto del risanamento dei conti pubblici e della minore crescita che questo risanamento comporta conducano, alla lunga, a un incremento invece che a un decremento dei differenziali sui titoli di Stato. Sentendo di dover rispondere del loro operato ai mercati, i Governi possono essere indotti a risanare i bilanci troppo rapidamente, anche nell'ottica limitata della sostenibilità del debito».

Se ho capito bene, Blanchard dice che i programmi di austerity possono risultare controproducenti e danneggiare l'economia a un punto tale da finire per appesantire i conti pubblici. Ciò significa che l'analogia con i dottori del Medioevo, che salassavano i loro pazienti e quando il salasso faceva peggiorare le loro condizioni li salassavano di nuovo, è assolutamente corretta: l'austerity riduce le prospettive di crescita e produce richieste di ancora più austerity. Ma guarda!
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Re: Stati e Mercati

Messaggioda ChristianTambasco » 18/01/2012, 8:35

fonte: sole24ore Gli avvoltoi della finanza e la carneficina greca

la Grecia alle prese con laTermopili della finanza
Gli avvoltoi della finanza e la carneficina greca
18 gennaio 2012

NEW YORK - Trentottesimo piano della Bank of America Tower, il nuovissimo grattacielo di vetro nel cuore di Manhattan a un isolato da Times Square. Uffici di Marathon Asset Management. Appuntamento ogni lunedì mattina alle 7 in sala riunioni, dove i gestori del portafoglio si confrontano con i responsabili del risk management per decidere come meglio investire i dieci miliardi di dollari da loro gestiti. Molto spesso la decisone finale spetta a Bruce Richards, fondatore e presidente di Marathon.

Una vita professionale trascorsa in un'unica strada - Wall Street - Richards ha cominciato trent'anni fa a Paine Webber. Per passare a Lehman Brothers, poi a Donaldson, Lufkin & Jenrette e infine a Smith Barney. In un certo senso è sintomatico che nessuna di queste banche di investimento esista più. Lehman è implosa, le altre sono state risucchiate dai giganti del settore - Ubs, Credit Suisse e Morgan Stanley. È la finanza, baby. Dove il darwinismo regna sovrano. Ma quella di Marathon è forse la forma di finanza più pura che esiste. Con i capitali non costruisce niente, scommette soltanto. Il suo è capitalismo d'azzardo.

Marathon non ha un motto. Il più appropriato sarebbe mors tua vita mea. Quello in cui si cimenta è infatti un gioco a somma zero: se Marathon si arricchisce è perché qualcun altro si è impoverito. Anzi, peggio, è andato fallito. I profitti più spettacolari Richards li ha fatti a seguito di alcuni dei più grandi disastri finanziari della storia. A partire da quello di Long-Term Capital Management, il fondo speculativo del Connecticut salvato dalla Federal Reserve nel 1998, passando per quello di Enron e WorldCom.

In occasione dell'ultima crisi finanziaria, quella che adesso rischia di affossare la Grecia, Marathon fu uno dei primi a ritirare i propri capitali da Bear Sterns (accelerandone il crack) e a creare un suo fondo per beneficiare dal bagno di sangue dei mutui subprime.
«La liquefazione del mercato dei subprime è stata assolutamente incredibile. E ha creato opportunità significative» scrisse in quell'occasione Richards in una lettera ai suoi clienti in cui annunciava la creazione di un nuovo fondo «per giovarsi della carneficina del mercato subprime con una strategia di acquisto opportunistico di beni sottovalutati». Parole sue. Che descrivono il modus operandi di Marathon con un cinismo a cui non sarebbe arrivato neppure a un membro di Occupy Wall Street.

Ed è la stessa strategia che adesso Richards sta applicando alla Grecia. Marathon è infatti uno degli speculatori che negli ultimi mesi si sono gettati sui titoli di Stato greci. Assieme ad altri fondi speculativi come York Capital Management Lp, passato alla storia per le fortune fatte comprando bond di società fallite, dalla Enron alla Adelphia Communications, da Tyco International a World Comm.

Cifre precise non sono disponibili. A secondo di chi le fa, le stime dei titoli di Stato greci nelle mani di speculatori oscillano tra i 10 e i 70 miliardi (quest'ultima cifra, probabilmente esagerata, è stata fatta la settimana scorsa al Wall Street Journal da un anonimo «alto funzionario governativo» greco).

A parte Marathon e York, ci sono Och-Ziff Capital Management, CapeView Capital Llp, Saba Capital management Lp e Vega Asset Management, il fondo spagnolo creato da un ex trader del Banco Santander.
Per tutti costoro il possibile fallimento della Grecia costituisce adesso un'opportunità. Si badi bene: non per comprare a prezzi stracciati beni o aziende da ricostruire o rivalorizzare. No, qui si parla di puri e semplici 'acquisti opportunistici'. E la «carneficina» che potrebbe seguire a un'eventuale bancarotta di Atene interessa soltanto in quanto potenziale fattore di moltiplicazione del guadagno.

«Può sembrare impietoso, ma della Grecia, dei greci, e del futuro dell'euro, non importa a nessuno qui. È un investimento come ogni altro: conta solo uscirne con un congruo bottino» dice una fonte in un fondo hedge «fortemente esposto sulla Grecia».
È una partita a poker. Che si deve concludere ben prima del 20 marzo prossimo, quando andranno in scadenza 14,4 miliardi di euro di titoli greci. Atene non ha i soldi per pagare i debitori, né la capacità di piazzare nuove emissioni sostitutive. Per evitare il default ha bisogno del secondo piano di sostegno europeo. Ma quei 130 miliardi di aiuti sono subordinati alla ristrutturazione del debito con i privati, il cosiddetto Private sector involvement, o Psi, il cui negoziato è stato sospeso la settimana scorsa.

Il tempo stringe. Charles Dallara, l'americano a capo dell'associazione che rappresenta banche e hedge fund nel negoziato, lunedì scorso ha detto che un accordo di principio deve essere completato entro la fine di questa settimana se si vuole finalizzarlo prima del 20 marzo.
In termini generali agli investitori privati i greci stanno chiedendo di accettare 'volontariamente' la conversione dei titoli posseduti in nuovi titoli ventennali o trentennali con maggiori garanzie in caso di default, un tasso di rendimento del 4 o 5% e un valore nominale dimezzato (nel gergo si parla di haircut del 50 per cento). Per rendere l'affare meno amaro, c'è poi un cosiddetto addolcitore: circa 35 miliardi in contanti da distribuire al momento dell'accordo.

Il termine 'dimezzamento volontario' del valore di un investimento potrebbe sembrare un ossimoro. Ma si conta sul fatto che le conseguenze di un default disordinato della Grecia potrebbero essere peggiori.

La volontarietà è elemento essenziale dell'accordo. Perché permetterebbe di interpretare la manovra non come una vera e propria ristrutturazione del debito, che farebbe scattare i cosiddetti Credit default swaps, o Cds, cioè i contratti di assicurazione contro il default. Sarebbe piuttosto un rimodellamento soft senza ramificazioni esterne.
Sembrava cosa fatta. Anche perché i Governi e la Banca centrale europea sono intervenuti sugli istituti finanziari. Ma il vero ossimoro è persuadere gli speculatori. Anche perché ognuno di loro ha una diversa strategia di quello che Moritz Kraemer, responsabile per i rating sovrani europei di Standard & Poor's, ha definito «rischio calcolato».

Chi ha in pancia Cds, non ha interesse ad accettare l'haircut. Ma negli ultimi mesi il prezzo dei Cds sulla Grecia è salito molto e per fondi iperspeculativi come quelli di cui stiamo parlando non avrebbe avuto senso dotarsene.
C'è però uno strumento derivato alternativo ai Cds al quale ha fatto ricorso almeno uno degli hedge fund che ha recentemente investito in titoli greci: il recovery swap. Si tratta di un prodotto che garantisce un tasso di risarcimento predeterminato nel caso di default. Se alla fine della procedura di default si recupera meno di quel tasso, la differenza viene rimborsata dalla controparte dello swap. Se si recupera di più, la differenza va alla controparte. Un'altra forma di scommessa. Che però garantisce una copertura seppure parziale.

Poi c'è chi non ha né Cds né recovery swap e ha comprato titoli greci nella primavera scorsa a prezzi ultrascontati. Avendo beneficiato fin qui dei loro tassi di rendimento elevati, potrebbe in teoria essere propenso ad accettare l'haircut e portarsi a casa i contanti dell'addolcitore. Ma non è detto. «Dipende dalla capacità di sopportazione del rischio» spiega la nostra fonte. «Si può fare anche il ragionamento opposto: poiché si è recuperato già buona parte dell'investimento, si può rischiare di più e rifiutare l'accordo Psi sperando che raccolga comunque l'adesione di una larga maggioranza dei creditori. A quel punto, per chiudere il negoziato con tutti, l'Europa potrebbe essere indotta a offrire di più a chi si è tenuto fuori». C'è un termine in gergo per costoro: free rider. Che poi è un'elegante forma inglese per definire gli scrocconi.

In questo momento più che mai puntare a fare i free rider significa essere disposti a correre forti rischi. Nell'attuale clima politico i governanti europei sono infatti ben poco propensi a premiare gli speculatori più aggressivi. «Sappiamo bene dei free rider» ci dice uno dei negoziatori europei. Lo sanno anche i greci. Come ha dimostrato il portavoce del Governo Pantelis Kapsis, il quale venerdì scorso ha parlato dell'introduzione di una «clausola di azione collettiva» che, in caso di approvazione a maggioranza imporrebbe l'accordo Psi anche a chi non lo ha accettato.

Ma la nostra fonte nel fondo hedge ci spiega che è una minaccia che suona vuota agli speculatori. Perché se l'accordo fosse ritenuto 'non volontario' dall'organo internazionale che valuta i cosiddetti eventi di credito, l'International swaps and derivatives association, scatterebbero i risarcimenti dei Cds, un'eventualità che le autorità greche e quelle europee hanno finora cercato di evitare. Anche perché metterebbe a repentaglio i conti degli istituti finanziari che li hanno venduti scatenando una serie di reazioni a catena di non facile gestione.
«È una partita sul filo del rasoio, fatta di misure e contro-misure, mosse e contromosse» ci dice il negoziatore europeo, non nascondendo la frustrazione per le energie impegnate a far fronte ai 'fondi avvoltoio'.
Solo all'ultimo si saprà chi l'avrà avuta vinta. Chi perderà è invece già chiaro: i greci. E con tutta probabilità sarà una carneficina.


Chi perderà è invece già chiaro: i greci. E con tutta probabilità sarà una carneficina.
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Re: Stati e Mercati

Messaggioda ChristianTambasco » 18/01/2012, 8:53

fonte: sole24ore L'ipotesi bancarotta non è più un tabù


forse sì forse no...venghino signori venghino
L'ipotesi bancarotta non è più un tabù
18 gennaio 2012

Dopo tanti mesi di Italia, l'attenzione dei mercati finanziari è tornata sulla Grecia. Il 20 marzo scadranno 14,4 miliardi di titoli greci senza copertura o possibilità di rinnovo. Per evitare il default Atene ha bisogno dei circa 130 miliardi del secondo piano di sostegno europeo. Forse sarà concesso. Forse no.

Il problema è che potrebbe non fare differenza. Nessuno lo dice pubblicamente, ma a Il Sole 24 Ore risulta che tra i negoziatori europei non c'è affatto la certezza che un nuovo pacchetto di aiuti possa bastare. «Il default della Grecia non è più un tabù», ci dice uno dei protagonisti del negoziato. Che nel linguaggio felpato di quel mondo è come dire che occorre prepararcisi. Anche perché i partner europei sembrano aver esaurito la pazienza: «I greci hanno continuato a trovare sempre nuovi buchi. Non c'era mai contezza delle dimensioni del problema. Il che ha reso tutti furibondi».

La cosa ancora più grave è che gli obiettivi già prefissati non sono stati rispettati. «Come per una famiglia in disaccordo, prima si cerca di riparare gli strappi e correggere gli errori. Ma poi arriva il momento in cui è meglio andare ognuno per la propria strada», osserva la nostra fonte.
Frustrazione e pessimismo di un singolo? Non si direbbe. Un memorandum interno del Fondo monetario internazionale recentemente reso pubblico da Der Spiegel attesta che lo stesso Fmi teme che il peso del debito greco rimarrà insostenibile.

Chi non ha funzioni istituzionali può ovviamente essere più esplicito. Come ha fatto Raoul Ruparel, analista del think tank inglese Open Europe, in un suo rapporto: «Nella storia economica moderna nessun Paese con i livelli di debito della Grecia è mai riuscito ad evitare il default. E neppure un secondo pacchetto di aiuti europei potrebbe impedire il default nei prossimi anni». Insomma, sarebbero soldi gettati al vento. E Ruparel ha fatto un calcolo provocatorio: «A oggi è come se ogni singola famiglia dell'Eurozona avesse nel proprio portafoglio titoli greci per 535 euro. Se ci fosse un secondo piano di aiuti, la somma salirebbe a 1.450 euro». Considerando che il default è a suo giudizio ineluttabile, Ruparel si domanda se abbia senso comprare quegli altri titoli. Probabilmente se lo stanno chiedendo anche i negoziatori europei.
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Re: Stati e Mercati

Messaggioda ChristianTambasco » 09/02/2012, 10:19

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-02-08/grecia-accordo-taglio-debito-153222.shtml?uuid=Aa3ZdtoE&p=2

Default?! no prima austerità e privatizzazioni, poi altro debito, poi....default!
Grecia: l'accordo sul taglio del debito può slittare al weekend
di Vito Lops, 08 febbraio 2012

Default o non default? E, in caso di default, in che termini? Queste le domande che tengono con il fiato sospeso la Grecia e gli investitori dell'Eurozona. Le ipotesi di un accordo sul taglio del debito sono aumentate dopo che la Bce, ieri in tarda serata, ha reso noto che sarebbe pronta a partecipare al programma di riduzione del debito ellenico con un impegno finanziario valutato in quasi 11 miliardi di euro. Intervento che è legato all'approvazione da parte del parlamento di Atene del nuovo rigido pacchetto di austerity del governo di Lucas Papademos. Secondo indiscrezioni circolate nel pomeriggio, l'ultima versione prevederebbe un taglio del 22 per cento ai salari minimi, con cui la mensilità scenderebbe a 586 euro lordi, un taglio del 15 per cento sulle pensioni integrative e la soppressione di 15.000 posti di lavoro nel settore pubblico

A tal proposito, sono iniziati da poco i nuovi colloqui tra il premier greco e i leader dei tre principali partiti ellenici. Senza l'approvazione dei provvedimenti, la cosiddetta 'troika" composta da Bce, Ue e Fmi non potrà infatti avviare il nuovo piano di aiuti da 130 miliardi di euro, senza il quale Atene andrà in default sui 14,4 miliardi di obbligazioni in scadenza il 20 marzo.

Intanto il presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker ha infatti convocato per domani una riunione straordinaria dei ministri delle Finanze dell'area euro, dedicata proprio alla Grecia.

A giudicare dall'andamento dei mercati finanziari (gli spread obbligazionari si sono ridotti con il differenziale BTp-Bund a 10 anni sceso in area 350 punti base) sembrerebbe che, alla fine, un accordo verrà trovato. Mentre, guardando la sponda dei bookmaker c'è meno ottimismo dato che il ritorno alla dracma è quotato più probabile rispetto a una permanenza nell'Eurozona.

Bce: accordo non prima del weekend
Secondo fonti interne alla Bce, l'istituto di Francoforte dovrebbe prendere una decisione finale su un possibile accordo con la Grecia per preveda per l'Eurotower, così come per le banche, un haircut (taglio) sul valore dei titoli di stato detenuti, non prima del weekend, forse nei primi giorni della prossima settimana. L'orientamento sarebbe quello di attendere che venga finalizzato e ufficializzato l'accordo con la troika Bce-Ue-Fmi e con le banche. In linea di principio - come ribadito in apertura - la Bce ha già accettato di partecipare al programma di riduzione del debito ellenico e il suo intervento è valutato in quasi 11 miliardi di euro.

C'è da dire che un accordo per il secondo piano di salvataggio per Atene (servono altri 130 miliardi dopo il prestito da 110 miliardi elargito nel 2010) sembrava fatto entro il 6 febbraio. Poi la decisione è slittata. A questo punto la data la prossima data papabile è compresa tra il 13 e il 15 febbraio. In ogni caso è indispensabile raggiungere un'intesa prima del 20 marzo, quando scade (va in pagamento) un bond a 14,4 miliardi di euro che attualmente sul mercato offre un rendimento virtuale superiore al 1.000%, perché contempla difatti l'ipotesi che si arrivi a una ristrutturazione del debito.

Intanto ieri Atene è riuscita a collocare sul mercato bond a 6 mesi per 812,5 milioni i a un rendimento del 4,86%, di poco inferiore a quello della precedente analoga asta.

Quanto alla ristrutturazione del debito (che resta un livello di default) le ultime indiscrezioni puntano dritto a un taglio del 70-75% del debito greco detenuto da banche e assicurazioni private.

Anche se l'agenzia di rating S&Poor's mantiene un atteggiamento cauto.

«La svalutazione del 70% dei bond greci che dovrebbe essere accettata dai creditori privati di Atene potrebbe rivelarsi non particolarmente rilevante per il governo ellenico», sottolinea Frank Gill, analista di Standard & Poor's, in una teleconferenza con i clienti.
Gill ha fatto sapere che il rating della Grecia potrebbe essere abbassato al livello di "default selettivo" una volta concluso l'accordo di swap con i creditori privati per poi essere alzato di nuovo se l'intesa si rivelerà capace di riportare i conti di Atene in una situazione di sostenibilità

Contribuenti tedeschi perderebbero 26 miliardi di euro
Intanto dalla Germania c'è chi già ha fatto i calcoli su quanto costerebbe un'eventuale rinegoziazione del debito. Ipotizzando un haircut del 75% i contribuenti tedeschi andrebbero incontro una perdita di almeno 26 miliardi di euro. È quanto emerge da uno studio condotto dall'Istituto per la ricerca economica di Kiel (Ifw) e dal sito del quotidiano Die Welt.
Secondo l'analisi, circa la metà dei titoli di debito greci - 120 dei circa 250 miliardi emessi - sono in possesso di istituti pubblici. Di questi 15 miliardi di euro di bond sono in pancia delle banche pubbliche dei Laender tedeschi, alla Commerzbank, parzialmente statalizzata, e ai liquidatori di Hypo Real Estate e WestLB, per cui rispondono sempre le casse pubbliche. Un taglio del 75% del valore nominale dei titoli costerebbe ai contribuenti 9,9 miliardi, scrive Die Welt online. Ma non finisce qui.

Considerando che nelle banche nazionali dell'Eurozona sarebbero parcheggiati 55 miliardi di euro di bond greci, considerando anche quelli detenuti dalla Bce, un taglio del 75% del valore nominale di quei titoli, farebbe perdere 26,4 miliardi di euro, 7,1 dei quali a carico della Germania.

Ai 17 miliardi già considerati si potrebbero aggiungere 9,3 miliardi, la parte tedesca della ricapitalizzazione delle banche greche, stimata in 34,5 miliardi di euro, che dovrà essere coperta dal fondo salva-Stati.
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Re: Stati e Mercati

Messaggioda domenico.damico » 23/02/2012, 14:25

Da questo articolo su Bloomberg:

http://www.bloomberg.com/news/2012-02-2 ... story.html

Questa riduzione di un portale che parla di immobiliare e mutui:

"una delle conseguenze più complicate da risolvere della bolla immobiliare è l'eccesso di indebitamento sulla casa che blocca l'economia. ma non tutte le banche sono uguali: in islanda, infatti, gli istituti di credito hanno deciso di rinunciare alla restituzione di una parte del mutuo. in questo modo un quarto dei cittadini islandesi si è visto cancellare una buona dose di debiti

il 13% del pil. è quanto finora le banche hanno deciso di non pretendere dalle famiglie indebitate. anche i cittadini possono infatti fallire e, se per pagare il mutuo si bloccano i consumi, l'economia generale ne risente, producendo una spirale di disoccupazione e crisi perpetua

il governo islandese, preoccupato per gli effetti di questo circolo vizioso, ha quindi raggiunto un accordo con le banche. tale accordo rappresenta, secondo lars christensen, economista del denske bank, un record mondiale di riduzione del debito domestico

in islanda è particolarmente diffuso, come del resto negli usa, ma anche in spagna o irlanda, il fenome noto come negative equity. stiamo parlando di un meccanismo a causa del quale un immobile, dopo poco tempo, vale meno del mutuo che si sta pagando per comprarlo. in caso di vendita, per necessità o scelta, ci si ritrova senza casa ma con i debiti. e siccome da una situazione del genere non ne trae beneficio nessuno (tranne pochi speculatori), tanto vale darci un taglio

ricordiamo che l'islanda nel 2008 è stato il primo caso di paese entrato in fallimento tecnico. da allora il governo e i cittadini hanno preso delle decisioni molto forti sulla non restitutzione del debito alle banche straniere. inoltre, con la forte svalutazione della moneta nazionale, tutti i mutui contratti in valuta estera, in euro per esempio, avevano raggiunto costi esorbitanti. questo tipo di mutuo, in valuta estera, è stato dichiarato illegale nel 2010 e le famiglie non dovranno ripagarlo"


Fonte: http://www.idealista.it/news/archivio/2 ... rde-valore


In Islanda in qualche modo hanno rovesciato il ragionamento: invece che essere le banche ad essere too big too fail, è il Paese che è troppo piccolo per fallire a causa del sistema bancario; la comunità ha acquisito una certa qualità di consapevolezza e ha deciso di non poter sottostare alle regole che le volevano imporre.
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Re: Stati e Mercati

Messaggioda ChristianTambasco » 24/02/2012, 16:18

fonte http://www.ilsole24ore.com/art/commenti ... d=AaPYwrwE

la faziosità...
Pechino al bivio del libero mercato

Gli economisti la chiamano "trappola del reddito medio". Come accaduto ad alcune nazioni dell'America latina di prima industrializzazione, scatta inesorabilmente quando in un Paese emergente la diffusione del benessere finisce per bloccare la crescita economica.

Dopo vent'anni di espansione del prodotto interno lordo a due cifre, avverte la Banca Mondiale, oggi anche la Cina rischia di cadere in questa micidiale tagliola. A differenza di Messico, Brasile e Argentina, però, il gigante asiatico ha ancora lo spazio per sfuggire alla triste alternanza di sviluppo e stagnazione. Basterebbe ridurre drasticamente il peso eccessivo dell'economia di Stato per creare più spazio all'impresa privata, suggerisce la Banca Mondiale.
Pechino è a un bivio: da un lato, c'è la strada che porta a un sistema dominato dai monopoli e dagli oligopoli pubblici; dall'altro, c'è quella che conduce verso il libero mercato e la concorrenza allargata. Toccherà alla nuova leadership cinese, che salirà al potere nella primavera 2013, decidere da che parte andare.


il bivio che vedo io è tra l'oligopolio pubblico e quello privato come la storia delle multinazionali insegna assieme a quella delle fusioni/acquisizioni che hanno attraversato tutti i settori strategici
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Re: Stati e Mercati

Messaggioda ChristianTambasco » 27/02/2012, 14:33

fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-02-26/vero-spread-debito-democrazia-143518.shtml?uuid=AaJrS2xE

...ma una riforma no?! rimaniamo ai tempi di Hume allora
Il vero spread è tra debito e democrazia
di Guido Rossi, 26 febbraio 2012

Il rapporto tra il debito degli Stati e le sovranità popolari rimane incerto e inquietante. Incerto perché non sono ancora né chiare né risolutive le soluzioni che vengono offerte per il debito pubblico, sia quella che si affidi a una rigorosa disciplina di tipo costituzionale sulla parità dei bilanci statali, accompagnata a forme di salvataggio e ristrutturazione del debito, sia quella che si voglia invece affidare alle forze dei mercati, ondeggiando pericolosamente sulle loroirrazionalitenute. Nell'un caso, come nell'altro, il debito degli Stati porta ad affrontare il complicato rapporto con la democrazia.

Due sono le difficoltà che rendono inquietante il rapporto. La prima riguarda un problema di equità fra generazioni. Ogni decisione governativa che prenda impegni finanziari vincolanti per le politiche economiche future è certamente incauta se non irresponsabile, perché impegna inesorabilmente le nuove generazioni. Tuttavia, permettere al futuro di esercitare un veto sulle decisioni relative alle attuali imposizioni fiscali e spese pubbliche è altrettanto pericoloso.

Tutto ciò va detto, in verità, perché questa incredibile tensione tra democrazia e debito rimane inquietante anche laddove le maggioranze democratiche siano costrette, per ragioni esterne, ad affrontare serie politiche di austerity, come sta succedendo attualmente nei Paesi dell'Unione Europea.

Il rapporto "debito pubblico democrazia" ha una lunga storia, ben illustrata da una recente ampia letteratura. Ne è esempio l'autorevole Yale Law Journal il cui ultimo numero contiene ben due articoli su "democrazia e debito".

Il rapporto conflittuale emergeva negli Stati Uniti già nella prima metà dell'800, quando nove Stati erano ridotti all'insolvenza, impossibilitati a pagare i loro debiti alla scadenza; ma la più eclatante emersione avvenne nel periodo della Grande Depressione, quando più di tremila municipalità si trovavano in stato di default.

È pur vero che già il grande filosofo David Hume aveva avvertito che il debito pubblico cede i poteri a una classe di finanzieri subordinando il benessere dei cittadini a quello dei creditori, e così mette in discussione l'indipendenza dello Stato. La verità è che Stati come quelli europei, che non controllano la loro politica monetaria, sono in preda a una disciplina diversa rispetto a quella degli Stati completamente sovrani, che hanno tutti i loro strumenti di politica finanziaria e monetaria sotto il loro controllo e a loro disposizione. E non corre dubbio che, tuttavia, anche per quegli Stati a piena sovranità, i limiti costituzionali agli investimenti pubblici e a ogni tipo di politica fiscale e di restrizione dei requisiti di bilancio, costituiscono un ostacolo al retto processo rappresentativo politico, condizionando i rappresentanti dei cittadini a svolgere pratiche di governo che sovente sono contrarie al bene comune che dovrebbero perseguire.

A evitare che con lo stato di eccezione il problema si trasformi da questione teorica in disciplina legislativa, sorda a ogni esigenza di eguaglianza sociale e vittima dell'imposto salvataggio delle strutture della speculazione finanziaria, è indispensabile che le priorità e il baricentro delle politiche dei governi europei si spostino. Anziché badare esclusivamente alla difesa del sistema finanziario, che invece necessita di una rigorosissima nuova regolamentazione, occorre che le politiche economiche e sociali si orientino all'eliminazione delle disuguaglianze, per assicurare ai cittadini la priorità dei diritti che Norberto Bobbio usava chiamare di prima e di seconda generazione, piuttosto che soddisfare l'interesse dei creditori, da pagare col sacrificio dei contribuenti.
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Re: Stati e Mercati

Messaggioda domenico.damico » 27/02/2012, 14:47

Ottimo questo articolo, molto importante, per i contenuti e per la firma;
sembra che anche in certi ambienti finalmente stia nascendo un nuovo dibattito, che era sopito ormai da decenni.
Tant'è vero che spesso in questi articoli escono fuori nomi e teorie di due secoli fa, quando invece il dibattito sul debito era molto acceso.
Speriamo non siano solo esercizi di stile, tipici dell'accademia.

I pdf del Yale Law Journal, citati nell'articolo:

- http://yalelawjournal.org/images/pdfs/1045.pdf

- http://yalelawjournal.org/images/pdfs/1046.pdf
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Re: Stati e Mercati

Messaggioda ChristianTambasco » 28/02/2012, 12:31

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=AaZgAsyE

lo Stato precario...
La fiducia dei mercati va meritata fino in fondo
di Marco Simoni, 28 febbraio 2012

Gli interessi che dobbiamo versare sul debito pubblico sono letteralmente crollati: ieri abbiamo pagato l'1,2% contro oltre il 6% di tre mesi fa. Cosa è avvenuto in questo breve tempo da giustificare un cambio di opinione così radicale da parte degli investitori? Due fatti essenzialmente: il primo di scala nazionale: è in carica un governo che (risolta l'emergenza di bilancio) è impegnato su riforme per la crescita di vasto respiro: in Italia non avveniva dagli anni 90. Il secondo di scala europea: la Bce domani per la seconda volta nel giro di pochi mesi metterà a disposizione delle banche continentali un ammontare illimitato di liquidità, sotto forma di prestito triennale a un tasso dell'1%.

Il dato dell'asta di ieri mostra che le due dimensioni - nazionale ed europea - sono entrambe necessarie. Dalla nostra prospettiva lo sono per uscire definitivamente dalla fase critica, in cui ogni giornata ha ragioni di apprensione; e lo sono per tornare su un percorso di crescita, che quasi due generazioni di italiani adulti non hanno mai conosciuto.

Le scelte della Bce mostrano che ai livelli di massima corresponsabilità continentale i Paesi europei compiono scelte creative per difendere le proprie economie dalle turbolenze dei mercati e per scongiurare criticità che possono inficiare la ripresa, in questo caso, un nuovo credit crunch.

Ma le scelte europee non possono bastare perché se queste determinano le condizioni in cui ogni Paese si trova ad operare, i motori della crescita continuano a essere nazionali.
Per dirla diversamente, certamente la crisi dell'euro non è stata determinata dall'Italia. Ma se l'Italia fosse riuscita a crescere in linea con la media europea degli ultimi vent'anni (come la Francia, o la Germania), e fosse stata capace di ridurre il suo altissimo debito pubblico (come il Belgio, o l'Irlanda), la crisi dell'euro avrebbe avuto proporzioni molto meno serie e meno pericolose. Nel medio e lungo periodo, dunque, un'Italia che torni a crescere è anche una condizione per un'Europa più forte e più stabile.
In questa prospettiva, e con il risultato incoraggiante dell'asta di ieri, c'è da auspicare non solo che il Governo porti a compimento le riforme intraprese o avviate - liberalizzazioni, mercato del lavoro, e poi a seguire alleggerimento e razionalizzazione del sistema fiscale - ma che le forze politiche si rendano conto della partita in gioco.
Una maggiore integrazione europea si compone di due aspetti: quello di un'Europa solidale, che aiuta i Paesi in difficoltà; e quello dei singoli Paesi che devono mettersi in condizione di essere portatori di soluzioni e non di problemi per la comunità.

L'Italia sta tornando a essere parte del primo gruppo: solo l'Italia è in grado di svolgere il ruolo di medizione tra gli opposti europeismi di Gran Bretagna da un lato, e Francia e Germania dall'altro. Mediazione necessaria per completare un quadro europeo dove stabilità e crescita procedano assieme, ma anche un ruolo per mantenere il quale l'Italia deve continuare il lavoro di riordino delle proprie istituzioni economiche, che è appena iniziato.

Purtroppo, nelle scorse settimane sono giunti segnali non incoraggianti: le forze politiche sono apparse drammaticamente permeabili a micro-interessi di categorie che si oppongono alle prime liberalizzazioni varate dal Governo (e comunque tutt'altro che radicali, anzi, attentamente tarate sulla realtà italiana).

Inoltre, la discussione sul mercato del lavoro è ancora ostaggio di ideologismi - brandelli di ideologie ormai inservibili - che vengono branditi come clave, mentre viene spesso elusa una discussione di merito che tenga conto dell'interazione delle diverse parti di cui una riforma efficace deve comporsi: contratti, costo del lavoro, protezione del reddito, uguaglianza dei lavoratori, coerenza del sistema.

Le forze politiche dovrebbero assecondare il cambio di passo imposto dal Governo che hanno voluto e a cui hanno garantito la fiducia: non si riconosce più - come è successo negli ultimi vent'anni - diritto di veto ad alcuna forza organizzata, grande o piccola che sia. Al contrario, si afferma la responsabilità piena del Parlamento, per esercitare la quale è stato eletto. Responsabilità che, nel 2012, è nei confronti dei cittadini italiani come degli altri nostri concittadini europei.


...
la Bce domani per la seconda volta nel giro di pochi mesi metterà a disposizione delle banche continentali un ammontare illimitato di liquidità, sotto forma di prestito triennale a un tasso dell'1%.
...


loro la fiducia non devono guadagnarsela/meritarsela così come i "mercati" godono di una posizione di privilegio insindacabile per come è strutturato il sistema economico-finanziario vigente....sono la mano che dà
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