ISLANDA: come è andata realmente.

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ISLANDA: come è andata realmente.

Messaggioda domenico.damico » 04/11/2013, 0:53

Finalmente qualcosa di sensato sulle cose successe in Islanda:

http://www.comedonchisciotte.org/site/m ... &sid=12541


DI VALENTIN KATASONOV
strategic-culture.org

Sia nei media sia nel pensare comune la “rivoluzione” islandese è sempre più frequentemente presentata come l’emblema di una vittoria contro l’oligarchia del mondo finanziario. Sostanzialmente la questione consiste nei rimborsi che l’isola deve ai correntisti delle sue banche. Questa piccola nazione, amante della libertà, ha saputo coraggiosamente sfidare il potere finanziario. I più entusiasti sostenitori della “rivoluzione islandese” accusano i media di aver deliberatamente nascosto la portata storica degli eventi per evitare la diffusione nel resto del mondo. In effetti i media sono riluttanti a parlare di questo argomento.

Tutto è iniziato poco più di una decina di anni fa, quando l’isola compiva i primi passi verso una totale liberalizzazione della propria economia. Tutte le banche furono privatizzate, furono aboliti i controlli sugli ingressi e sulle uscite di capitali, agli investitori esteri erano concesse agevolazioni fiscali. Si arrivò al punto che l’Islanda cominciò ad essere considerata null’altro che “un grande hedge fund” [sono una particolare tipologia di fondi speculativi. Per maggiori dettagli http://it.wikipedia.org/wiki/Fondi_speculativi, Ndt].

Il settore bancario divenne nel giro di poco tempo il nucleo economico del paese. Iniziò a divenir parte del sistema finanziario speculativo internazionale attraendo investimenti dall’estero (essenzialmente di privati cittadini inglesi, olandesi e tedeschi) grazie agli alti di interesse.

Il continuo ingresso di capitali esteri alimentò una velocissima crescita creando l’illusione di un “miracolo economico”. Si pensi che nel 2003 il settore bancario valeva il 200% del PIL e giunse al 900% nel 2007. La momentanea ricchezza finanziaria, finché non giunse la crisi, permise effettivamente a tutta la popolazione (320.000 abitanti) di godere di un diffuso benessere. Si pensi che in quel periodo l’Islanda si presentava come un paese occidentale estremamente ricco; nel 2007 le Nazioni Unite la incoronavano come prima nazione al mondo per qualità di vita e nelle aule universitarie i professori tenevano conferenze sul “miracolo economico” islandese…

Non appena si affacciarono all’orizzonte i primi segnali della crisi, il miracolo svanì presto. La piramide del debito cessò di crescere, nel 2008 le perdite bancarie giunsero a 85 miliardi di dollari causando il default di molti istituti. Le banche dell’isola avevano contratto enormi debiti nei confronti dei loro correntisti esteri. Il governo agì secondo le direttive più liberiste: a) acquistò le obbligazioni bancarie con la promessa di ripagare i correntisti delle banche fallite; b) dichiarò il default del Paese; c) chiese un sostegno finanziario al Fondo Monetario Internazionale; d) accettò le condizioni imposte da quest’ultimo e da altre eventuali istituzioni che avessero offerto “aiuto”.

Alla fine del 2009 il parlamento approntò persino una legge atta a ripagare le perdite dei correntisti esteri, concertando con le autorità britanniche ed olandesi [due fra i paesi che maggiormente avevano investito in Islanda, Ndt] un piano di rifinanziamento del debito. Poi l’isola compì passi fuori dal comune. Le misure eccezionali sembrò che fossero state prese sull’onda della protesta popolare che inneggiava all’arresto dei banchieri. Nel referendum del marzo 2010 il 93% dei votanti si schierò contro le misure del governo che si adeguò: a) rifiutandosi di ripagare i debiti delle banche contratti con i creditori esteri; b) nazionalizzandole c) rinnegando le scelte compiute sul default dei titoli di stato.

Cosa successe veramente? E’ vero, il governo si rifiutò di ripagare 5,3 miliardi di dollari ai 340.000 mila correntisti britannici ed olandesi. L’assicurazione sui depositi in vigore prima della crisi valeva solo per i residenti e i cittadini islandesi. Le banche dell’isola si comportarono come molti istituti dei paradisi fiscali nei quali, generalmente, non esiste l’assicurazione sui depositi degli investitori esteri. Il tentativo del governo di caricare sulle spalle degli innocenti contribuenti islandesi l’onere del debito fu considerato illegale.

Se lo stato, infatti, si fosse fatto carico delle perdite delle banche avrebbe accumulato così tanto debito pubblico da essere incapace di ripagarne anche solo gli interessi. Da lì sarebbe conseguito un’ inevitabile dichiarazione di default del Paese, eventualità contro cui si schierò compatta l’oligarchia finanziaria. Si sarebbe ripetuto il precedente spagnolo [nei primi anni novanta anche il paese iberico affrontò una crisi a causa dell’eccessivo debito estero, Ndt] che avrebbe contagiato l’Europa. I banchieri scelsero il male minore.

L’isola non fu affatto vittima di un “isolamento” da parte del FMI o di altre istituzioni finanziarie [come talvolta sostenuto dai media, Ndt]. Il 24 ottobre 2008 il paese chiese aiuto al Fondo ricevendo 5,1 miliardi di dollari (una cifra pari al 30% del PIL) con la promessa di ristabilire il normale funzionamento del settore finanziario e tagliare la spesa pubblica.

Nel luglio del 2009 il governo annunciò il piano di ricapitalizzazione delle 3 nuove banche, create dalle ceneri delle fallite, con un finanziamento pubblico di 2,1 miliardi di dollari (cifra pari al 12% del PIL). La c.d. “nazionalizzazione” degli istituti è stata tentata in diverse crisi negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in altri paesi europei. Il procedimento è strettamente tecnico, le banche sono salvate con risorse pubbliche. Successivamente lo stato ne esce gradualmente dal capitale e ne rivende quote sul mercato sì da riprivatizzarle. Per quanto riguarda i correntisti esteri non subirono alcuna perdita e vennero rimborsati dai rispettivi governi.

Il debito pubblico islandese crebbe molto ma non esplose: nel 2007 era pari al 29,1% del PIL, nel 2008 al 70,3% e giunse all’88,2% nel 2009, livello paragonabile a quello greco ed irlandese di quegli anni. Il governo islandese non dichiarò mai default. Ma tutto ad un tratto i media cominciarono a parlare del “precedente islandese”.

Lo ribadisco, non accadde nulla di tutto questo. Ci furono sicuramente momenti di tensioni fra l’isola e l’FMI nel corso del 2009. I “Vichinghi” sostennero che non avrebbero ripagato il debito semplicemente perché non avevano i soldi per farlo. Poi il Fondo sembrò assecondare le proposte islandesi affermando che i correntisti esteri dovevano pazientare nell’esser risarciti.

Quale fu il motivo per inventarsi la favola del default dell’isola? Forse per spingere nella stessa direzione Grecia, Spagna, Portogallo e altri paesi dell’unione europea. Nel 2012 l’esperto russo Sergey Golubitsky pubblicò un articolo intitolato “Perchè non vi fu alcuna rivoluzione in Islanda”. La messinscena islandese organizzata dai banchieri americani? Nell’articolo documentò che: a) non vi fu “rivoluzione” in Islanda; b) tutte le fasi della vicenda, falsamente presentata come rivoluzionaria, furono dirette dall’establishment di Wall Street per il proprio tornaconto.

Le banche americane ed inglesi (Goldman Sachs, J.P. Morgan, Morgan Stanley, Barclays) sono le principali emittenti di assicurazioni (c.d. Credit Default Swap) contro il fallimento di Paesi, istituti finanziari e grandi imprese. Gli squali di Wall Street temevano che il default dell’Islanda avrebbe potuto creare un precedente ed un contagio in Europa [le banche, in caso di default, avrebbe dovuto pagare ai sottoscrittori dei CDS cifre pari a centinaia di miliardi di dollari, Ndt]. Se il governo islandese avesse pagato gli ingentissimi risarcimenti ai correntisti esteri sicuramente sarebbe fallito. L’articolo di Sergey Golubitsky termina con queste parole: “sono investiti centinaia di miliardi di dollari in CDS, qualsiasi leggerezza potrebbe portare al default – questa è la realtà, sebbene sembri sminuire la rivoluzione di una piccola, ma orgogliosa, nazione”.

Al momento la situazione islandese è simile a quella di altri paesi europei, i cui debiti pubblici sono aumentati costantemente. In questi anni di crisi economica, iniziata nel 2007, si è passati da un rapporto medio, fra debito pubblico e PIL, del 66% ad un valore medio del 93%. E’ difficile confidare in facili speranze. L’Islanda rappresenta l’ennesima situazione nella quale i banchieri più potenti del mondo sono stati capaci di convogliare la protesta popolare a loro vantaggio. E’ difficile immaginare cosa sarebbe successo se veramente l’isola si fosse opposta agli interessi dell’oligarchia finanziaria. In realtà ci sono molti casi di paesi che le si sono veramente opposti. Sono questi gli unici eventi di cui i media non parlano affatto.

Valentin Katasonov
Fonte: www.strategic-culture.org
Link: http://www.strategic-culture.org/news/2 ... dance.html
21.10.2013

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CRISTIANO ROSA
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I quali si chiederanno cosa non viene apprezzato del loro ottimismo.
Ennio Flaiano
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