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Questa sezione accoglie discussioni e segnalazioni su articoli usciti dai vari mezzi di informazione

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Messaggioda domenico.damico » 19/11/2012, 22:58

«La lezione dell'Ecuador: dal default si può ripartire»
Roberto Da Rin - 15 novembre 2012

Un'aula gremita, al Politecnico di Milano. Economisti e ingegneri prendono appunti. In cattedra Rafael Correa, presidente dell'Ecuador dal gennaio 2007 e candidato per le prossime elezioni in programma a febbraio. A lui è assegnata una lectio magistralis in cui si parla di debito pubblico: "L'esempio dell'Ecuador di fronte alla crisi del debito in Europa". Il Sole-24Ore lo ha incontrato poco dopo. L'Ecuador è una delle economie più dinamiche dell'America Latina che nel 2011 è cresciuta del 7,8 per cento. E al tempo stesso il suo debito estero è sceso da 17,4 a 13,6 miliardi di dollari.
Qual è stata la ricetta? «Puntare sulle infrastrutture - spiega Correa - ripartire da uno sfruttamento ragionevole delle nostre risorse naturali e rinegoziare il debito. Nelle crisi debitorie vanno esplorate nuove strade. È andata bene, ci siamo meritati la fiducia degli investitori internazionali». Ieri, in effetti, la potentissima banca brasiliana Bndes ha firmato un prestito di 90,2 milioni di dollari per finanziare un impianto idroelettrico ecuadoriano. Negli anni scorsi sono affluiti investimenti rilevanti. Quale lezione per l'Italia e l'Europa? «Non voglio impartire lezioni a nessuno, mi limito a dire che le soluzioni ortodosse non hanno risolto il problema del debito».
Il debito, appunto. L'Ecuador, proprio quattro anni fa, è stato additato come un "Paese irresponsabile", nuovo membro dell'Asse del male per aver dichiarato di non voler pagare una parte del debito. Presidente, poi cosa è successo? «Abbiamo rinegoziato il debito, affrontato alcune questioni che riguardano il funzionamento della nostra economia dominata dagli oligopoli, focalizzato alcune distorsioni, l'economia è ripartita». La dollarizzazione (il dollaro americano è la moneta nazionale) è stata additata, proprio dal suo Governo, come la peggiore sciagura possibile, un cancro da estirpare. Però è ancora lì, perché? «Non abbiamo potuto sostituirla con una moneta nazionale perché tutte le attività sono in dollari e il Paese patirebbe una crisi gravissima se la togliessimo - spiega Correa - ma ciò non toglie che sia una perversione e che in futuro potrebbe essere eliminata».
Alcuni Paesi europei e gli Stati Uniti guardano con diffidenza agli accordi economici che il Governo di Quito sigla con l'Iran, con il Venezuela. «Siamo uno Stato sovrano, le scelte di politica commerciale vanno rispettate anche perché gli stessi Paesi che ci accusano di appartenere all'Asse del male aprono ambasciate e stringono accordi con i Paesi da cui noi dovremmo restare lontani». Presidente Correa, come finirà la vicenda di Julian Assange (l'hacker australiano che ha svelato i segreti della diplomazia mondiale), rifugiato nell'ambasciata ecuadoriana a Londra? «Dipenderà dalla Gran Bretagna e dalla Svezia, oltre che dal suo avvocato difensore. Vedremo. Noi ci siamo limitati a tutelare i diritti umani di una persona in pericolo di vita».

Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... fromSearch
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ECUADOR - Presidente Correa In Italia

Messaggioda domenico.damico » 19/11/2012, 23:00

DI CLAUDIO PERLINI
ilsussidiario.net

Intervista a Giulio Sapelli

L’Ecuador, il più piccolo tra i paesi del Sudamerica, propone un nuovo modo di gestione del debito pubblico. Lo fa attraverso le parole del suo Presidente, l’economista Rafael Correa, intervenuto all'Università Bicocca di Milano nel corso degli incontri previsti con i rettori degli atenei lombardi. A lui è infatti stata assegnata una lectio magistralis dal titolo "L'esempio dell'Ecuador di fronte alla crisi del debito in Europa". La ricetta del Paese Sudamericano è tanto semplice quanto complessa: “Rifiutando di pagare quanto richiesto dai nostri debitori - ha detto Correa - abbiamo risparmiato e investito l’equivalente di due anni di nuove infrastrutture nel Paese”. Secondo il presidente ecuadoriano, questo metodo è applicabile in qualunque Paese, anche in quelli europei: “Bisogna avere coraggio per prendere decisioni politiche anche se questo può influire sul rating, sul rischio-Paese. Un’economia sociale e solidale con il mercato porta benessere al Paese”. Insieme al professor Giulio Sapelli, docente di Storia economica all’Università di Milano, commentiamo questa proposta.

Professore, cosa ne pensa?

Quello fatto da Correa è in sostanza lo stesso annuncio che aveva fatto anche l’Argentina alcuni anni fa attraverso la politica economica, certamente avventurosa, di Nestor Kirchner. Numerosi esperti della scienza economica ufficiale avevano preconizzato che, a seguito di questo, l’Argentina si sarebbe ritrovata isolata dal resto del mondo; eppure, come sappiamo, questo non si è mai verificato.

Quindi la posizione di Correa non la stupisce?

Non molto. Semplicemente Correa, ritrovatosi schiacciato dal debito estero, adesso si rifiuta di pagarlo, a fronte di una politica del Fondo monetario internazionale che in certi casi si è rivelata catastrofica. Abbiamo cominciato a capire quanto hanno sofferto i Paesi dell’America del Sud a causa del Washington Consensus (insieme di specifiche direttive di politica economica elaborate nel 1989 dall'economista John Williamson da destinare ai paesi in via di sviluppo che si trovassero in crisi economica, ndr) e per la politica del Fmi solamente quando le stesse regole sono state applicate in Grecia e in Portogallo.

Quanto si rischia però con una politica del genere?

Ovviamente molto, ma evidentemente tra la politica del Fmi e quella del rischio anche il popolo ecuadoriano preferisce di gran lunga la seconda ipotesi, ed è assolutamente comprensibile. Alcune conseguenze negative probabilmente ci saranno, l’Ecuador potrebbe essere espulso dal Wto oppure subire alcune forme di embargo, ma se Correa ha assunto tale posizione significa che può permetterselo, magari contando sul solido rapporto con il Brasile che vanta una politica economica molto autonoma.

È davvero applicabile una politica del genere anche in Europa, per esempio in Italia?

Credo proprio di no. L’Italia, come ben sappiamo, si ritrova con una “camicia di forza” chiamata euro, quindi una soluzione come quella dell’Ecuador non è assolutamente applicabile. Forse lo è in via assolutamente teorica, ma non possiamo non guardare alla realtà: nel contesto dell’Eurozona un’ipotesi del genere non è pensabile.

Come giudica comunque un atteggiamento di questo tipo nei confronti del debito estero?

Conosco molto bene il Sudamerica e devo dire che il neoliberismo del Washington Consensus ha distrutto gran parte dell’economia latinoamericana, così come l’avevano già indebolita anche le politiche protezioniste. Adesso, invece, fortunatamente si è capito che ad andare molto bene è un’economia mista come quella brasiliana. Anche se difficilmente applicabili altrove, esempi come questi risultano in tutti i casi molto interessanti.

In Islanda invece i cittadini hanno chiesto in un referendum che la Costituzione venga riscritta per impedire il ripetersi della crisi finanziaria del 2008. Vogliono una quota maggiore dei proventi da energia geotermica e pesca. Cosa ne pensa?

Personalmente sono favorevole a iniziative di questo tipo e credo che gli islandesi abbiano fatto bene a richiedere il referendum, ma anche in questo caso parliamo di un Paese molto piccolo, con pochi abitanti, un'immensa fonte di energia e una grande educazione civica. Hanno poi avuto la fortuna di non essere stati integrati nell’euro, quindi non hanno il nostro stesso vincolo.

Entrambi i casi sono quindi interessanti, ma solo sulla carta.

Esatto. Stiamo parlando di Paesi capaci di rialzarsi dopo essersi avvicinati pericolosamente al baratro, di cui possiamo certamente imitare una spiccata creatività con la quale far nascere idee di questo tipo che a noi evidentemente manca. La lezione da imparare è questa, certamente non di politica economica.

Claudio Perlini
Fonte: www.ilsussidiario.net
Link: http://www.ilsussidiario.net/News/Econo ... ia/338527/
16.11.2012
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Re: ECUADOR

Messaggioda ChristianTambasco » 20/11/2012, 9:54

interessante, quindi secondo sapelli, avendo noi la camicia di forza (l'euro), non possiamo fare nulla...bah!

anche la storia dei casi diversi è una banalità, ogni storia è a se stante e l'unico filo conduttore è costituito dalle consapevoli politiche fallimentari imposte dal FMI al quale anche l'europa si sta rimettendo.
...se vuoi ottenere qualcosa di diverso devi cominciare ad agire diversamente.
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Messaggioda domenico.damico » 20/02/2013, 17:36

Rivoluzione civile: dall’America Latina all’Europa

di Fabio Marcelli | 20 febbraio 2013

Conobbi Rafael Correa, da poco eletto presidente dell’Ecuador, all’aeroporto di Cochabamba in Bolivia nel dicembre 2006. Avevo partecipato a un evento collaterale al vertice dei presidenti sudamericani (Unasur) dove avevo svolto un parallelo e un confronto fra i processi di integrazione regionale in Europa e in America Latina. Stavo facendo la fila al check-in in compagnia di due deputate salvadoregne, già comandanti guerrigliere del Frente Farabundo Martì, quando passò Correa e gli facemmo un applauso. Lui si fermò e ci chiese da dove venissimo. Lo salutammo e gli augurammo buon lavoro.

Lo rividi nel novembre 2008 a Quito, in occasione della presentazione del Rapporto finale della Commissione di indagine sul debito estero, cui avevo avuto occasione di collaborare. Un lavoro davvero importante ed esemplare, grazie al quale finalmente è stata fatta chiarezza su un debito estero enorme, frutto di vari raggiri e conflitti d’interessi. Un’operazione analoga di trasparenza effettiva andrebbe fatta sul debito pubblico italiano e di tanti altri Paesi, ma il governo dell’Ecuador è finora stato l’unico a realizzare questa attività indispensabile. Utile anche a ridurre di molto l’entità del fardello debitorio, recuperando risorse sottratte alla vorace finanza e investite in servizi sociali, sviluppo economico e benessere del popolo.

In effetti, con Correa presidente, il denaro è andato a finire dalla parte giusta. Le cifre parlano da sole: la povertà è stata ridotta del 12%, aumentate le tasse nei confronti delle imprese multinazionali, incrementati gli investimenti in salute, istruzione e cultura. Risultati riconosciuti dal popolo ecuadoriano che domenica, a grande maggioranza, ha confermato la sua fiducia nei confronti di Correa.

Per certi commentatori sono democratici solo quelli che sono “omogenei” all’Occidente, ovvero possono vantare servilismo nei confronti delle potenze dominanti e dei poteri finanziari (e autoritarismo nei confronti dei propri popoli). Tutti gli altri sono pericolosi populisti, dittatori mascherati, ecc. Solo chi prende ordini dalle istituzioni finanziarie internazionali, secondo i pennivendoli di casa nostra, può essere definito democratico a tutti gli effetti. Ma questa genia, che ha fatto danni e disastri negli anni passati, è fortunatamente in via di estinzione in America Latina, tanto è vero che non corrispondono più pienamente a questi connotati neanche presidenti di destra come il colombiano Santos e il cileno Piñera. E Correa è parte integrante, anzi uno dei protagonisti, di questa lunga primavera latinoamericana, tanto è vero che ha voluto dedicare la sua vittoria al comandante Chavez, che nel frattempo sta meglio ed è tornato in Venezuela, dove gode del 70% dei consensi e speriamo possa godere di lunga e fattiva vita alla faccia dei menagramo.

Sfogliando un libro di storia, qualche giorno fa, sono stato colpito da un’analogia. Intorno al 1820, mentre in Europa infuriava la restaurazione monarchica guidata dalla Santa Alleanza, in America Latina Simon Bolivar e altri combattevano per l’indipendenza. Oggi, a due secoli quasi di distanza, in America Latina sono poste le nuove frontiere dell’umanità in lotta contro il neoliberismo e il mercantilismo sfrenato, mentre l’Europa si dibatte in una profonda crisi di prospettiva dovuta in buona parte al prevalere di ideologie oramai stantie, espressione solo del potere prevaricatore e paralizzante delle oligarchie finanziarie. Solo liberandosi di questo potere sarà possibile restituire un futuro ai nostri Paesi, nell’interesse dei giovani e delle future generazioni.

Quindi per molti aspetti va seguito l’esempio dell’America Latina. Un’altra analogia degna di nota è, a tale riguardo quella tra il partito di Correa, che si chiama Rivoluzione Cittadina, e la coalizione capeggiata da Antonio Ingroia, che si chiama Rivoluzione Civile. Due elementi in comune: il riferimento alla necessità di una trasformazione sociale profonda e il richiamo alla cittadinanza, al protagonismo dal basso, al potere di tutti quelli che sono senza potere e senza diritti, ma sarebbe ora che si svegliassero anche qui da noi.

Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02 ... pa/504645/


COMMENTO:

Su Correa, poco da dire; la sua linea di azione sembra davvero unica e gli manca solo qualche tassello (monetario)
per essere veramente rivoluzionario.
La commissione d'inchiesta sul debito pubblico è davvero un esperimento unico al mondo, ed è stato condotto
con forza e determinazione, con obiettivi di chiarezza e di principi di responsabilità.

Su Rivoluzione Civile italiana invece... direi un grande MAH
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LA COMMISSIONE SUL DEBITO IN ECUADOR

Messaggioda domenico.damico » 20/02/2013, 17:38

Questo è il sito della Commissione sul debito in Ecuador, con compiti d'indagine e poteri amplissimi e operativi:

http://www.auditoriadeuda.org.ec/index. ... e&Itemid=1
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LA RIELEZIONE DI CORREA

Messaggioda domenico.damico » 20/02/2013, 17:41

Ecuador, Correa terza volta presidente: “Niente per noi, tutto per voi”

Eletto per la prima volta nel 2007 i suoi primi anni li ha "usati" per investire nella salute, nell’istruzione e nelle infrastrutture del paese. Ma l’economista Alberto Acosta, un tempo suo amico fraterno alla Bbc: “Non lo riconosco più, non è più la persona che conoscevo e che amavo come un fratello. E’ diventato una specie di Re Sole del 21 secolo”

Non è servito aspettare i risultati completi dello spoglio elettorale in Ecuador: il presidente uscente Rafael Correa, quando il conteggio era a poco meno del 40 per cento delle schede, ha proclamato la propria vittoria. Gli ecuadoriani gli hanno dato fiducia per la terza volta. Correa ha avuto il 57 per cento dei voti, distanziando di un abisso il suo più diretto rivale, Guillermo Lasso, fermo al 24 per cento. “Siamo qui per servirvi” ha detto Correa nel suo discorso della vittoria, affacciato al balcone del palazzo presidenziale del centro storico della capitale Quito, “Niente per noi, tutto per voi: il popolo che ha il diritto di essere libero”. Migliaia di persone lo hanno applaudito e anche Lasso ha parlato di “una vittoria che merita rispetto”.

Correa, 48 anni, è stato eletto per la prima nel 2007, ma con la nuova costituzione approvata l’anno successivo ha dovuto sottoporsi di nuovo al voto nel 2009, per cui questo è il terzo mandato dal punto di vista formale e non potrà candidarsi di nuovo al suo scadere. Il principale obiettivo della nuova presidenza che si inaugura oggi è, secondo quanto il presidente ha dichiarato alla stampa internazionale, la riduzione della povertà, che in Ecuador, stando ai dati dell’Onu, è già scesa dal 37 al 32 per cento della popolazione negli ultimi cinque anni. L’opposizione, che non è riuscita a trovare un candidato comune, lo accusa di voler accentrare ancora più potere nelle mani della presidenza e il secondo governo Correa è stato segnato dalle dure polemiche tra l’esecutivo e i media, specialmente quelli vicini all’opposizione, accusati di aver fomentato una rivolta della polizia nel 2010. Secondo l’elite ecuadoriana, vicina tradizionalmente ai partiti conservatori, il demerito principale del presidente della “rivoluzione civica” è di aver spaventato gli investitori internazionali, a causa dell’alleanza con Cuba e il Venezuela di Hugo Chavez. Correa, tuttavia, è stato spesso molto pragmatico nelle sue scelte internazionali, mantenendo sì l’Ecuador in sintonia con il Venezuela e l’ALBA, l’alleanza continentale promossa da Caracas, senza tuttavia essere del tutto assorbito nel cono d’ombra della vulcanica personalità di Chavez.

“Non è una vittoria solo per l’Ecuador – ha detto ancora Correa nel suo discorso – Ma per tutta la grande patria dell’America latina. Nessuno può fermare questa rivoluzione, le potenze coloniali non sono più al governo, ora ci siete voi”, ha aggiunto. Nonostante la sua popolarità, e scelte coraggiose come l’asilo politico dato al fondatore di Wikileaks Julian Assange, il merito principale di Correa è nell’aver dato stabilità a un paese di quasi 15 milioni di abitanti che dall’inizio degli anni 2000, dal levantamiento degli indigeni che deposero il presidente Jamil Mahuad, aveva avuto diversi anni di turbolenze politiche con un altro presidente, Lucio Gutierrez, cacciato a furor di popolo e molte proteste sociali guidate dalle organizzazioni indigene. Correa ha usato i suoi primi anni da presidente per investire nella salute, nell’istruzione e nelle infrastrutture del paese, non senza appoggiare alcuni progetti controversi come il corridoio terrestre da Manaus (Brasile) a Manta, porto ecuadoriano sul Pacifico, che gli hanno alienato il sostengo di settori dei movimenti indigeni ed ecologisti che lo avevano sostenuto all’inizio della sua carriera.

L’economista Alberto Acosta, un tempo suo amico fraterno e già co-fondatore del partito del presidente Alianza Pais, oggi è uno dei suoi più duri critici: “Non lo riconosco più, non è più la persona che conoscevo e che amavo come un fratello – ha detto alla Bbc – E’ diventato una specie di Re Sole del XXI secolo”. Lo stesso Acosta era candidato alla presidenza per la Union Plurinacional de Izquierda (Upi), una formazione di sinistra vicina ai movimenti sociali ecuadoriani. Su suo account Twitter, l’economista ha scritto di aspettarsi dal nuovo mandato quei cambiamenti strutturali attesi dal popolo ecuadoriano e finora arrivati con il contagocce. Acosta, che è stato ministro per le miniere nel primo governo Correa e poi presidente dell’assemblea costituente salvo poi rinunciare al mandato in polemica proprio con il presidente ed ex amico, ha raccolto le forze sociali che “da sinistra” criticano Correa proprio per aver tradito i principi della “rivoluzione civica” che lo ha portato al potere e ne denunciano la politica di progressivo accentramento delle decisioni. Un fattore che potrebbe rivelarsi determinante nei prossimi anni e soprattutto al momento della scelta di un possibile successore che non sia solo una personalità forte come quella del presidente, ma sia anche capace di proseguire sul cammino di rinnovamento istituzionale ed economico di cui il paese ha bisogno.

fONTE: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02 ... oi/504514/
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Re: ECUADOR

Messaggioda Vito Zuccato » 20/02/2013, 20:00

domenico.damico ha scritto:Su Rivoluzione Civile italiana invece... direi un grande MAH

Ricordiamoci che il responsabile economico dell'IDV – principale componente della coalizione capeggiata da Ingroia – è il prof. Antonio Borghesi dell'Università di Verona che è anche presidente dei deputati IDV e componente in Parlamento sia della Commissione Tesoro che della Commissione Finanze, quindi è un nome e una garanzia assoluta, prima di tutto culturale, per i creditori del debito pubblico italiano, a cominciare dai creditori esteri e con marchio "IFM" *.

Avere Borghesi (e Fassina per il PD) come responsabile economico è quasi peggio di avere direttamente Milton Friedman, perché sembra proprio che Borghesi (e Fassina) parli e straparli senza sapere.

Quindi più che «MAH» rispetto a Correa è «NO».




* IFM = Istutizioni Finanziarie Monetarie = banche centrali e commerciali (per chi legge tale acronimo per la prima volta)
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Re: ECUADOR

Messaggioda domenico.damico » 21/02/2013, 17:18

Sì, infatti il MAH era ironico...
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L'ECUADOR DI RAFAEL CORREA

Messaggioda domenico.damico » 02/03/2013, 2:31

L'America Latina avanza, goleada di Rafael Correa

DAL BLOG MONDOCANE DI Fulvio Grimaldi

Quando si dirà in un qualsiasi paese del mondo: i miei poveri sono felici, né ignoranza, né carenze si trovano tra di loro, le mie prigioni sono vuote di detenuti, le mie strade libere da mendicanti, gli anziani non sono deprivati, le tasse non oppressive, il mondo razionale è mio amico perché io sono amico della sua felicità. Quando si possono dire queste cose, allora il mio paese potrà vantersi della sua costituzione e del suo governo. Thomas Paine)

Noi qua ci dibattiamo tra i fanghi volanti di un’immonda campagna elettorale, i cui protagonisti sono tutti indistintamente burattini della criminalità finanziaria, religiosa e mafiosa organizzata e si dicono chierichetti del golpista Napolitano, a sua volta lustrascarpe della supermarionetta Obama. L’unico che esce dal coro e si astiene da riverenze e baciamano, addirittura osa l’inosabile spernacchiando gli Usa e Israele, rifiutando le guerre e gli strumenti di guerra a cui i licantropi imperiali trascinano gli sguatteri spendibili, il “comico”, il “populista”, “l’antipolitico”, cioè l’unico non populista e seriamente politico, viene criminalizzato, sbeffeggiato, insultato, diffamato. Gente che non ha nulla da dire sullo sterminio di un popolo dopo l’altro nel Sud del mondo, sulle strategie di malattia e fame che falciano bambini e donne a milioni, si strappa le vesti per un’uscita infelice di Grillo sugli immigrati. Gente che considera il feldmaresciallo SS Obama, devastatore della costituzione americana, primatista guerrafondaio della storia Usa, creatore del più grande Stato di polizia del mondo, uno che con i droni assassini si è fatto insieme accusa, giudice e boia di chiunque gli faccia saltare la mosca al naso, nasconde il proprio asservimento a questa forma di tecnodittatura postnazista sotto gli alti lai per la sprovveduto apertura del Grillo a Casa Pound.

Dedicando il trionfo elettorale a Hugo Chavez e ai caduti nella difesa del presidente e dell’ordine democratico, al tempo del colpo di Stato del 2010 che doveva culminare con l’uccisionedel Capo di Stato, sequestrato nell’ospedale della Polizia, Rafael Correa, in carica dal 2006, ha detto: “Abbiamo sconfitto i demagoghi e la stampa mercatista e renderemo irreversibile la relazione di potere a vantaggio della maggioranza e a scapito dei poteri di fatto. Qui non comanderanno la bancocrazia, le potenze mediatiche, qui non comanderanno gli Stati egemonici; con questa rivoluzione comanderanno le equatoriane e gli equatoriani. Continueremo con questa rivoluzione e si sappia che non falliremo. Potremo commettere, da esseri umani, molti errori, ma colui che afferma di non commettere errori e colui che non ha mai fatto niente nella vita. Non ipotecheremo la patria per consentire l’ingresso del capitale multinazionale e daremo al debito sociale la priorità su quello estero.

Le prime felicitazioni al vincitore sono arrivate da Cuba, Nicaragua, Venezuela, Bolivia, Argentina, dallo schieramento dei paesi dell’ALBA (Alleanza Bolivariana per le Americhe) di cui l’Ecuador di Correa è entrato a far parte (e non gli è andata storta come al presidente honduregno Manuel Zelaya, rovesciato da un golpe Usa), in particolare da Hugo Chavez in fase di convalescenza all’Avana.

Alle elezioni presidenziali e parlamentari di domenica, il presidente Rafael Correa ha trionfato con quasi il 60% dei voti di oltre 11 milioni di elettori (secondo gli exitpoll), conseguendo 10 punti in più rispetto al 2009 e distanziando il rivale più accreditato, il banchiere sponsorizzato dagli Usa Guillermo Lasso, di più di 30 punti. A prefisso telefonico l’esito degli altri concorrenti, dal destro Lucio Gutierrez al sinistro Alberto Acosta, uno per il quale l’oramai del tutto normalizzato “manifesto” filo-vendolian-bersaniano ha voluto sbilanciarsi con soffietti elogiativi. In Parlamento il partito di Correa, Alianza Pais, avrà la maggioranza assoluta e potrà finalmente procedere a misure di salvaguardia ambientale e di democratizzazione di un’oligarchia mediatica asservita ai poteri economici e al diktat imperialista.

Ho avuto il privilegio, a metà del decennio, di vivere e filmare quanto stava rovesciando nel suo contrario il paradigma di un America Latina “cortile di casa degli Usa”. Ho visto come si possono fare rivoluzioni vincenti nell’era della dittatura neoliberista e dell’offensiva imperialista finalizzate a succhiare quanto di plusvalore resta nei paesi già saccheggiati dal colonialismo. In Ecuador, alla rivolta degli indigeni nelle zone devastate dalla Chevron e da altri cannibali petroliferi, rispondevano a Quito i forajidos, l’equivalente dell’argentino que se vayano todos, con una mobilitazione di mesi e una risposta adeguata alla violenza del corruttissimo fantoccio Usa, Lucio Gutierrez. La rivolta culminò con l’occupazione del parlamento e la paralisi dello Stato. Aveva trionfato quella revolucion ciudadana che Correa, poco dopo, avrebbe istituzionalizzato con la nuova costituzione democratica, ecologica, partecipativa. Ancora una volta, come prima in Argentina, Venezuela, e poi in Bolivia e Nicaragua, sono state le masse, non a prendere il Palazzo d’Inverno, ma ad assediarlo, soffocarlo, disintegrarlo e, democraticamente, attraverso il processo elettorale sostenuto dalla mobilitazione rivoluzionaria, processo elettorale che fin lì era sembrato essere solo lo strumento della paradittatura del capitale e delle potenze coloniali, conquistare il potere.

Per la prima volta nella storia del pianeta un presidente ha fatto iscrivere nella Costituzione la personalità giuridica della Natura, ha cacciato su due piedi la base yankee di Manta, la più grande nell’America Latina, ha rivendicato al petrolio il diritto di essere pagato dagli Stati per essere lasciato sotto terra. Ai peggiori distruttori degli ecosistemi nell’Amazzonia dei giacimenti petroliferi è stato dato il benservito e, per via legale, se ne reclamano gli indennizzi. Al diavolo sono mandati gli avvoltoi del FMI e della BM, è stata ridotto il debito, con Chavez è stato respinto l’ALCA, il trattato di libro scambio con cui gli Usa intendevano spolpare l’America Latina.

Cento erano gli obiettivi della Revolucion ciudadana, in massima parte realizzati durante i due mandati di Correa. Nel 2006 per ogni dollari investito nella spesa sociale, se ne investiva 1,8 nel debito estero. Nel 2011 di quel dollaro solo 33 centesimi andavano a pagare il debito. Puntando verso la piena occupazione, si é grandemente ridotta la disoccupazione, nell’ambito di una spesa per la sanità decuplicata si è ridotto di cinque volte il paludismo, malattia endemica. Di 8 volte si è aumentata la spesa per l’istruzione e la ricerca, l’investimento per lo Stato sociale per cittadino passava in cinque anni da 90 dollari a 446 e la povertà veniva ridotta di 12 punti. Sono aumentate le case popolari, è in corso un grande piano infrastrutturale per agevolare la comunicazione tra comunità e aree produttive, nel massimo rispetto dell’ambiente e dei popoli nativi. Presso la base di questi popoli Correa, come rivelano sondaggi e manifestazioni, gode di un vastissimo consenso. Non così nella loro massima organizzazione, la CONAIE.

Correa, infatti, non ha dovuto soltanto affrontare la solita panoplia della guerra medatica, con i grandi giornali e le emittenti in mano all’oligarchia e le cannoniere occidentali, dalla BBC alla CNN e al Pais, impegnati alla morte con diffamazioni, annunci di brogli, le solite accuse di caudillismo autoritario e le manovre di destabilizzazione con tentativi di golpe e sabotaggi di varie corporazioni e Ong. Tra i più accaniti avversari di Correa e della rivoluzione sono stati dall’inizio i dirigenti della CONAIE. Un’opposizione che, ammantata di integralismo ecologico, assumeva antistorici caratteri di etnicismo separatista. Avevo intervistato Luis Macas, all’epoca presidente della CONAIE, per sentirmi illustrare, sotto l’etichetta di Stato Multinazionale, il fantasioso e anacronistico progetto di una riunificazione dei popoli indigeni in entità autonoma, dal Perù alla Bolivia e all’Ecuador e a quali altri indios ci stessero. Il modello, dichiarò Macas, era l’impero Inca. Un riordinamento su base monoetnica che avrebbe comportato la dissoluzione degli Stati presenti e della loro sovranità. Con grandissima soddisfazione di un imperialismo in ritirata, ma non rassegnato.

La CONAIE e la sua espressione partitica, il Pachakuti, avevano, a suo tempo, sostenuto e difeso fino all’ultimo il peggiore dei tiranelli neoliberisti e filo-Usa della parte finale del secolo scorso. Lucio Gutierrez, indio rinnegato e anche un po’ folle, primatista di corruzione e protagonista di uscite bislacche alla Berlusconi, uno che aveva steso il paese a zerbino sotto gli anfibi militari ed economici Usa, era poi stato defenestrato dai forajidos, eminentemente studenti, lavoratori e ceto medio urbano, mentre le organizzazioni indigeni erano rimaste alla finestra, o accanto a Gutierrez. Quando la revolucion ciudadana cambiava paradigma sociale e costituzionale, aprendo a inediti riconoscimenti della particolarità indigena ed evidenziando, al confronto, il disastro sociale e i delitti personali di Gutierrez, i dirigenti Indios dettero segno di ravvedimento e di riconoscimento di quanto veniva messo in opera.

Ma è durata poco. Al colpo di Stato di un gruppo di questurini, teleguidati dall’ambasciata Usa, ebbero la faccia di esprimere il proprio appoggio, per quanto smentiti dalla loro base. Con rivendicazioni di integralismo ambientalista, si opponevano a qualsiasi, pur prudente, opera che il governo attuava sul piano infrastrutturale per impedire che il paese sprofondasse nel limbo degli importatori totali. Ricordo la battaglia per l’acqua, che Correa voleva pubblica, ma organizzata da un ente di Stato per garantirne l’equa distribuzione tra chi ne aveva tanta e chi non ne aveva punta, a cui i dirigenti indigeni risposero con la pretesa di sapore leghista: “l’acqua a chi ce l’ha”.

Il “manifesto” ha voluto commentare la campagna elettorale in Ecuador, dando ampio spazio a tale Alberto Acosta, leader di un “movimento di sinistra”, formato da maoisti, trotzkisti, radicali vari, alcuni accademici, che, da sinistra, contestava i provvedimenti del governo, qualsiasi settore riguardassero. Al progetto di Acosta hanno subito aderito i vertici delle organizzazioni indigene, la cui forza elettorale non era stata sufficiente a guadagnarsi spazi all’interno delle istituzioni rivoluzionarie. Visto che, a ben guardare, le differenze ideologiche tra questi gruppi e il partito di governo sono di scarsa rilevanza, è fondato il sospetto che si tratti di motivazioni personalistiche, da una parte, e di rivendicazioni etniciste dall’altra. Ed è un vero peccato che, in un processo di cambiamento drastico, con il conseguente passaggio di potere e di ricchezza da una minoranza di parassiti alla maggioranza della popolazione, vi siano queste divisioni.

Che poi si possono vedere anche in altri paesi a indirizzo progressista, dove spesso le organizzazioni indigene sono impegnate, per effettivi interessi corporativi, ma sotto il manto dell’assolutismo ecologico-separatista, a destabilizzare governi invisi all’imperialismo e ai suoi fiduciari locali. Organizzazioni alle quali, del resto, non mancano il plauso e il fattivo impegno di numerose Ong del Nord del mondo, un po’, come USAIDS, autentici tentacoli del servizi segreti imperiali, un po’ soggetti dall’ispirazione caritatevole, la cui visione della questione indigena latinoamericana è adulterata da un romanticismo ascientifico e, soprattutto, interclassista ed etnicista. Alla Marcos, per intenderci. Episodio significativo di questo attrito visto con grande benevolenza dalle centrali neoliberiste fu la famosa questione della strada che avrebbe dovuto unire la Bolivia dal Brasile alla costa pacifica, attraversando una riserva naturale, Tipnis, abitata da alcune migliaia di indigeni. Opera indispensabile per la crescita del ruolo commerciale di una Bolivia chiusa nel suo isolamento territoriale. Evo Morales aveva ripetutamente invitato tutte le parti al dialogo su eventuali correzioni di percorso, senza che l’invito venisse accolto. Continuavano invece le barricate. Ora il progetto è stato sospeso in attesa che i portatori della protesta si acconcino a discuterne con il governo e con le altre componenti sociali che della mancanza di comunicazioni soffrono gli effetti.

Sia detto con assoluto rispetto e solidarietà per le realtà native che, con più matura coscienza politica, si battono nelle società neoliberiste, come nel Cile i Mapuche o in Honduras gli indios e gli afrodiscendenti, insieme a tutti gli “sfruttati e oppressi” del loro paese.

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Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì.
I quali si chiederanno cosa non viene apprezzato del loro ottimismo.
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REPORTAGE DALL'ECUADOR

Messaggioda domenico.damico » 26/03/2014, 14:34

Il reportage dall'Ecuador di Giorgio Simonetti, il 'giornartista' nostro ospite nel congresso di Montegrotto di dicembre 2011, e nella puntata di 'Debito e Democrazia' andata in onda lo scorso martedì 25 marzo su Radio Gamma Cinque.

http://www.corriere.it/inchieste/report ... 2379.shtml
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