NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vista

Discussioni su argomenti che in apparenza possono sembrare lontani dalla questione monetaria, ma che comunque sono ritenuti meritevoli di interesse.

NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vista

Messaggioda domenico.damico » 02/01/2012, 13:15

Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì.
I quali si chiederanno cosa non viene apprezzato del loro ottimismo.
Ennio Flaiano
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Re: NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vis

Messaggioda domenico.damico » 02/01/2012, 13:17

Interesanti punti di vista alternativi su questo blog finanziario:

http://intermarketandmore.finanza.com/tag/world-war-iii
Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì.
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Re: NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vis

Messaggioda domenico.damico » 02/01/2012, 13:19

Il racconto di un reporter di guerra coraggioso, informato e contro corrente come Fulvio Grimaldi:

http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2011 ... avera.html

http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2012 ... -homo.html
Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì.
I quali si chiederanno cosa non viene apprezzato del loro ottimismo.
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Re: NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vis

Messaggioda Lorenzo Lenzi » 09/01/2012, 0:02

LIBIA: sull’orlo di una nuova guerra civile
Dopo Bruxelles e Parigi, la prima capitale straniera che Mario Monti visiterà sarà, tra due settimane, Tripoli. Al primo posto ci sono i contratti dell’Eni, che il nuovo potere libico minaccia di «rivedere». Ma resta ancora in ballo il Trattato d’amicizia, riattivato già con la visita del presidente del Cnt Mustafa Abdel Jalil in Italia a metà dicembre, e che ora Monti confermerà. Il Trattato, sottoscritto da Berlusconi e Gheddafi nel 2008 a Bengasi, riconosce i misfatti coloniali italiani attraverso il risarcimento di 5 miliardi di dollari distribuiti in 20 anni, da impiegare nella costruzione di una mega-litoranea.

Ora poi si presenta – mentre accorrono in Libia ministri francesi e anche quelli della Germania che non ha partecipato alla guerra – l’affare della ricostruzione di quello che la guerra civile e i bombardamenti della Nato hanno distrutto. Ricostruzione che, secondo l’Economist, darà alla Libia nel 2012 un «rimbalzo» eccezionale con un tasso di crescita del 25%. Per i nuovi affari l’Italia farà contare, in perfetta continuità con il governo Berlusconi, il peso rilevante della sua iniziativa militare nella guerra. Ma dietro c’è ancora la vicenda sporca interna al Trattato, cioè l’impegno del nuovo governo libico a «contenere» – con i campi di concentramento come faceva Gheddafi e con il pattugliamento a mare e sui confini interni – l’immigrazione dei disperati in fuga dalla miseria e dalle guerre dell’Africa dell’interno. Il Cnt e Jalil hanno già dato ampie rassicurazioni a proposito. Solo a parole, purtroppo, il ministro della cooperazione Riccardi ha detto che l’Italia avrebbe «rivisto» il Trattato.
Tutto si tiene sul delicato equilibrio di due interrogativi: chi ha vinto realmente in Libia e qual è la situazione a Tripoli. Una situazione che si racconta da sé. Due mesi dopo la cattura e il linciaggio di Gheddafi, la Libia è sull’orlo di una nuova guerra civile. L’allarme di questi giorni è dello stesso Jalil, dato più volte per dimissionario dalla presidenza del Cnt da tutte le tv arabe.

«La Libia rischia di precipitare in una guerra civile se non riuscirà a tenere sotto controllo le milizie rivali che continuano a fronteggiarsi nel paese», ha denunciato da Bengasi dopo una furiosa battaglia scoppiata nel centro di Tripoli solo martedì scorso, che ha provocato sei vittime ufficiali ma in realtà più di dieci morti secondo Al Arabiya. Che ha raccontato di violenti scontri a fuoco in diversi quartieri, nati dopo che un gruppo di miliziani provenienti dalla città di Misurata, asserragliati nel vecchio palazzo dei servizi segreti, si era rifiutato di rispettare un ordine di sgombero da parte del Cnt. Altre fonti hanno parlato di «milizie filo-monarchiche contrapposte a islamisti».

Ora gli scontri armati sembrano essersi radicalizzati «politicamente». Giovedì scorso due dei principali gruppi di ex insorti libici hanno preso posizione contro la recente nomina da parte del Cnt del nuovo capo di stato maggiore dell’esercito, Yussef al-Mangush, definendola «illegale». Si tratta della Coalizione dei rivoluzionari (Thwar) libici, che riunisce fazioni di Bengasi, Misurata e Zintan, e del Consiglio militare della Cirenaica. Si teme il peggio, visto che i due gruppi dispongono di grandi quantitativi di armi, tra cui pezzi di artiglieria e carri armati.

E’ in questa Libia «reale» che arriveranno il presidente del Consiglio Monti e il comitato d’affari che si porterà dietro.
TOMMASO DI FRANCESCO

Fonte: Nena News
Lorenzo Lenzi
 
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Re: NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vis

Messaggioda Lorenzo Lenzi » 13/01/2012, 2:07

“LA SIRIA RIMARRA’ LIBERA E INDIPENDENTE”
– Discorso del Presidente Bashar al-Assad, il martedì 10 gennaio 2012 (PARTE 1)


So che sono stato lontano dai media per lungo tempo, ed ho perso il contatto diretto con i cittadini, ma sono sempre stato seguito durante gli avvenimenti quotidiani e raccogliendo le informazioni in modo che il mio discorso possa essere costruito su quello che si dice dalla strada.

Vorrei salutarvi nel nome del panarabismo, che continuerà ad essere un simbolo della nostra identità e nostro rifugio nei momenti difficili, come continueremo ad essere il suo cuore pulsante, con amore e affetto. Vorrei anche salutare voi nel nome del nostro paese che sarà sempre la fonte del nostro orgoglio e dignità, come rimarremo fedeli ai suoi valori autentici per i quali i nostri padri e nonni si sono sacrificati a caro prezzo per rendere la nazione fieramente indipendente . E sono orgoglioso della vostra fermezza, che manterrà la Siria una fortezza invincibile di fronte a tutte le forme di penetrazione e libera nel resistere alla sottomissione a forze straniere.

Oggi, mi rivolgo a voi, dieci mesi dopo lo scoppio degli sfortunati eventi che hanno colpito il paese imponendo nuove condizioni sulla scenario siriano. Per tutti noi, queste condizioni rappresentano un test importante per il nostro impegno nazionale, e non possiamo superare questa prova se non che col nostro continuo lavoro ed onesti intenti basati sulla nostra fede in Dio, sul carattere autentico della nostra gente, e sulla sua natura solida, lucida, nel corso dei secoli luminosa e robusta. Nonostante questi eventi ci abbiano fatto pagare, fino ad ora, un caro prezzo, che ha reso il mio cuore sanguinante, come ha fatto sanguinare il cuore di ogni siriano, c’è bisogno che i figli della Siria, indipendentemente dalle loro fedi e dottrine, siano saggi e ragionevoli, e che siano guidati dal loro più profondi sentimenti nazionali. Solo così il nostro Paese può ottenere la vittoria, con la nostra unità, la nostra fratellanza, la nostra volontà di andare oltre gli orizzonti ristretti e gli interessi momentanei, per risolvere i problemi della nostra nobile nazione . Questa è la nostra destinazione, la forza del nostro paese e la gloria della nostra storia.

La Cospirazione Esterna non è più un segreto

La Cospirazione Esterna non è più un segreto, perché ciò che viene complottato nelle stanze dei congiurati ha iniziato ad essersi chiaramente rivelato agli occhi del popolo. Non è più possibile ingannare gli altri, ad eccezione di quelli che non vogliono ascoltare o vedere; come le lacrime versate dai dispensatori di libertà e di democrazia per le nostre vittime, proprio non possono più nascondere il loro ruolo svolto nello spargimento di sangue, che hanno cercato di utilizzare per i propri scopi. All’inizio della crisi, non era facile spiegare cosa stesse succedendo. Le reazioni emotive e l’assenza di razionalità superavano i fatti. Ma ora la nebbia è stata rimossa e non è più possibile per le parti, regionali e internazionali, che volevano destabilizzare la Siria, forgiare a loro piacere fatti ed eventi. Ora le maschere sono cadute dalle facce di quei partiti, e siamo diventati capaci di decostruire l’ambiente virtuale che hanno creato per spingere i siriani verso l’illusione, per poi farli cadere. Questo ambiente virtuale è stato creato per portare ad una sconfitta psicologica e morale, la quale avrebbe portato ad una sconfitta vera e propria. Questo attacco, senza precedenti, dei media aveva lo scopo di indurci in uno stato di paura, e questa paura, che avrebbe paralizzato la volontà, avrebbe portato alla sconfitta.

Oltre sessanta canali TV nel mondo si sono dedicati al lavoro contro la Siria.

Oltre sessanta canali televisivi in tutto il mondo si sono dedicati al lavoro contro la Siria. Alcuni di essi si sono dedicati al lavoro contro la situazione interna siriana, e alcuni altri stanno lavorando per distorcere l’immagine della Siria all’estero. Ci sono decine di siti internet, e decine di giornali e diversi canali mediatici, il che significa che stiamo parlando di centinaia di reti multimediali.

Il loro obiettivo era quello di spingerci verso uno stato di auto-collasso, con lo scopo di salvare i loro sforzi per condurre molte battaglie, ed hanno fallito nell’intento, ma ancora non mollano.

Uno dei loro tentativi, di cui si è consapevoli, è quello fatto personalmente nei miei confronti nella mia intervista al canale di notizie americane. Di solito non mi guardo in TV, che sia un’intervista o un discorso. Quella volta ho visto l’intervista e stavo quasi per credere a quello che mi è stato mostrato d’aver detto. Se erano in grado di convincere me stesso della menzogna, come potrebbero non convincere gli altri! Per fortuna, abbiamo avuto una versione originale dell’intervista, ed hanno fatto quello che hanno fatto, perché hanno pensato che non avessimo una versione originale da poter presentare ai cittadini da confrontare con la loro versione. Senza avere avuto tale possibilità, nessuno avrebbe mai creduto nella macchinazione professionale che hanno fatto, anche se ora parlassi per ore, per cercare di dirvi che non ho detto ciò che è stato travisato su quel canale di news.

Naturalmente, avevano un unico obiettivo in mente. Quando non sono riusciti a causare uno stato di collasso in Siria, a livello popolare e istituzionale, hanno voluto prendere di mira il vertice della piramide dello Stato, per dire ai cittadini, da un lato, e naturalmente all’Occidente dall’altro, che questa persona vive in un bozzolo e non sa cosa stia succedendo. Hanno anche voluto dire ai cittadini, soprattutto quelli nell’apparato statale, che se la figura in alto della piramide sta eludendo le responsabilità e dando sensazione che le cose stiano cadendo a pezzi, poi è normale che le cose vadano fuori controllo.

Ci sono state continuamente voci le quali dicevano che il presidente aveva lasciato il paese, come a dire che il presidente ha rinunciato alla sua responsabilità. Hanno fatto del loro meglio per far circolare quelle voci, ma noi diciamo loro: ‘questi sono i vostri sogni, perché io non sono una persona che si arrende di fronte alle proprie responsabilità.’

Quando ho sorseggiato un pò d’acqua, nel mio precedente intervento, hanno detto che “il presidente è nervoso”, ma noi non abbiamo mai pescare nel torbido, né in periodi di crisi, né in situazioni normali. Ora si utilizza la dichiarazione precedente per dire che il presidente siriano ha annunciato che non rinuncerà suo posto. In realtà, essi non fanno distinzione tra le due nozioni di ‘ufficio’ e ‘responsabilità’, ed io dissi nel 2000 che non sono competizione per nessun ‘ufficio’ e non fuggo le mie responsabilità. Un ufficio non ha nessun valore. Si tratta puramente di un attrezzo e chi è in cerca di un ‘ufficio’ non merita rispetto.

Stiamo parlando ora di responsabilità, e questa responsabilità deriva la sua importanza dal sostegno pubblico. Questo significa che ho acquisito la posizione con l’appoggio del popolo, e quando lo lascerò, sarà per volontà di questo popolo. Questo è definitivo, ed indipendentemente da ciò che avete sentito, ho sempre basato la mia politica estera, in tutte le nostre posizioni, sul sostegno pubblico e la pubblica volontà. Cosa ne facciamo dell’intervista con il canale americano, nel contesto dei media? Si è parlato ripetutamente circa la buona intenzione di molti sia all’interno della Siria che nel mondo esterno. Perché non permettiamo che i media entrino in Siria? Infatti, durante il primo mese o mese e mezzo della crisi, arabi e stranieri delle reti mediatiche erano completamente liberi di muoversi all’interno della Siria. Tuttavia, tutte le invenzioni dei media, e l’intera campagna politica e mediatica contro la Siria, sono stati costruiti in quella fase di forgiatura e distorsione; e c’è differenza tra distorcere la verità, attribuendosi credibilità essendosi presentato dall’interno della Siria, da un lato, e distorcere la verità dall’esterno della Siria, dove verrebbe data meno credibilità a una frode del genere. Ecco perché abbiamo preso la decisione, non di non chiudere la porta a tutte le reti dei media, ma di essere selettivi nell’accesso a loro dato, al fine di poter controllare la qualità delle informazioni, o la falsificazione di esse, che andrebbe al di là dei confini.

La vittoria è molto vicina finchè saremo in grado di sopravvivere e di investire nei nostri punti di forza

Siamo stati pazienti in una battaglia senza precedenti nella storia moderna della Siria, una battaglia che ci ha reso più forti. Se questa battaglia comporta rischi significativi e sfide decisive, la vittoria è molto vicina, finchè siamo in grado di sopravvivere e di investire nei nostri punti di forza, che sono molti, e di conoscere le debolezze degli avversari, che sono ancora di più. La vostra consapevolezza pubblica, che si basa su fatti, non su ipotesi, sottovalutazioni, esagerazioni o semplificazioni, ha avuto il ruolo più importante nello scoprire il ‘sistema’ e limitandolo nell’attesa di averlo completamente contrastato. Nella nostra ricerca per smantellare questa ‘ambientazione virtuale’ e per garantire l’importanza della situazione interna nei confronti di qualsiasi ingerenza esterna, abbiamo deciso di parlare in modo chiaro/onesto avendo avuto omissioni e difetti/ostacoli qui e lá in alcune aree. Questo intendevo dire nei discorsi precedenti quando parlavo degli errori, non intendendo affatto sottovalutare l’importanza di tali schemi esterni. Non credo che una persona ragionevole possa negare oggi che questi atti di sabotaggio e di terrorismo si spostino verso un altro livello di criminalità, la quale mira alle menti, alle persone altamente qualificate e alle istituzioni. Lo scopo di tutto questo, è quello di generalizzare uno stato di panico, per distruggere il morale e farvi raggiungere lo stato della disperazione, cosa che avrebbe aperto la strada a ciò che era stato pianificato “dall’esterno” per diventare una realtà, ma questa volta nelle mani ‘locali’.

All’inizio, hanno cercato la loro desiderata rivoluzione, ma la loro rivoluzione gli si è girata contro e contro i vandali ed i loro mezzi. Fin dai primi giorni, però, il popolo si ribellò contro di loro, precludendo così sia loro che i loro scagnozzi. Quando rimasero scioccati dalla vostra unità, cercarono di smontare e frammentare questa unità attraverso l’uso orrendo dell’arma confessionale, dopo averlo mascherato con la copertura della santa religione. Quando hanno perso la speranza di raggiungere i loro obiettivi, hanno deviato in atti di sabotaggio e assassinio sotto la copertura di diverse etichette, come l’utilizzo di alcune manifestazioni pacifiche e lo sfruttamento di torti commessi da persone di stato. Così hanno avviato il processo degli omicidi, hanno tentato di isolare le città e dividere le varie parti del paese. Hanno rubato, saccheggiato e distrutto strutture pubbliche e private, e dopo aver sperimentato con tutti i modi e mezzi possibili al mondo di oggi, con tutti i mezzi di comunicazione regionali e internazionali di sostegno politico, non hanno trovato un punto d’appoggio per la loro auspicata rivoluzione.

I paesi arabi non sono tutti uguali nelle loro politiche verso la Siria

Ed ecco il ruolo degli stranieri, dopo non essere riusciti in tutti i loro tentativi; non c’era altra scelta che un intervento esterno. Quando diciamo stranieri, di solito ci viene in mente che si tratti di chi è un esterno straniero. Purtroppo, questo forestiero al di fuori è diventato un misto di arabi e stranieri, e talvolta, in molti casi, questa parte araba è più ostile e peggiore di quella estera. Non voglio generalizzare, l’immagine non vuol essere desolante, perché i paesi arabi non sono tutti uguali nelle loro politiche. Ci sono paesi che hanno tentato durante questa fase di svolgere un ruolo moralmente obiettivo verso ciò che sta accadendo in Siria. Al contrario, ci sono paesi che, in fondo non si preoccupano di ciò che sta accadendo in generale. Voglio dire che stanno ai margini, e nella maggior parte dei casi ci sono paesi che realizzano ciò che viene chiesto loro di fare. Ciò che è strano è che alcuni funzionari arabi sono con noi nel cuore, e contro di noi in politica. Quando chiediamo chiarimenti, viene detto, o il funzionario dice, “io sono con voi, ma ci sono pressioni esterne”. Voglio dire, questa è una dichiarazione semi-ufficiale di perdita di sovranità. Non è una sorpresa che alcuni paesi un giorno colleghino le proprie politiche alle politiche di paesi stranieri, come la connessione della valuta locale alle valute estere, e dando così via la sovranità essa diventa una questione sovrana.

La verità è che questo è il picco del deterioramento della situazione araba, ma il deterioramento precede sempre una rinascita, quando si passa dalla prima indipendenza, che è la prima liberazione di terra dall’occupazione, alla seconda indipendenza che è l’indipendenza della volontà . Raggiungeremo questa indipendenza quando i popoli arabi prenderanno l’iniziativa nel mondo arabo in generale. Questo perché le politiche ufficiali che vediamo non riflettono del tutto ciò che vediamo sulle arene pubbliche nel mondo arabo.

Noi non vediamo questo ruolo arabo, che abbiamo visto ora improvvisamente, quando c’è una crisi o un dilemma in un paese arabo. Al contrario, lo vediamo nella sua migliore forma quando ci sono problemi in un paese straniero o di una superpotenza. Il salvataggio di uno stato dalla sua crisi, è spesso a scapito di un altro Stato, o a spese degli stati arabi, e spesso attraverso la distruzione di un paese arabo. Questo è quello che è successo in Iraq e questo è quello che è successo in Libia, e questo è ciò che vediamo ora nel ruolo degli arabi verso la Siria. Dopo aver fallito nel Consiglio di Sicurezza, quando non riuscivano a convincere il mondo delle loro menzogne​​, c’era bisogno di una copertura araba e la necessità di avere una piattaforma araba. Ecco che arriva questa iniziativa. La verità di questa iniziativa è lanciare un monitoraggio, e che io sono colui che ha proposto questo tema nel mio incontro con la delegazione della Lega araba a pochi mesi fa. Abbiamo detto che da quando le organizzazioni internazionali sono venute in Siria hanno esaminato i fatti ed hanno ottenuto una reazione positiva, almeno attraverso una revisione delle cose – non diciamo che le cose sono tutte positive, essi vedono le cose positive e negative, e noi non vogliamo altro che conoscere la verità, così com’è – ed è più conveniente per gli arabi inviare una delegazione per vedere cosa sta succedendo in Siria. Naturalmente, non c’era alcun interesse in questa proposta avanzata dalla Siria, ma improvvisamente, dopo diversi mesi, vediamo che questo argomento è diventato il centro dell’attenzione mondiale. Non è stata un’improvvisa attenzione verso ciò che abbiamo proposto a tutti, ma perché il sistema ha iniziato dall’esterno secondo questo titolo.

In ogni caso abbiamo continuato il dialogo con le varie parti ed il ministro degli esteri ha parlato nelle sue conferenze stampa di dettagli che non ripeterò qui. Ci siamo concentrati su una cosa soltanto, che è la sovranità della Siria. Consideravamo che il cittadino arabo, il funzionario arabo o l’osservatore arabo, ha sentimenti verso di noi, voglio dire, rimaniamo arabi che simpatizzano l’uno con l’altro, non importa quanto brutta sia la situazione araba. Perché hanno avviato l’iniziativa araba? Gli stessi paesi che esprimono preoccupazione per il popolo siriano, sono stati quelli che inizialmente ci hanno consigliato le riforme. Naturalmente, questi paesi non hanno la minima conoscenza della democrazia e non hanno eredità in questo campo, ma pensavano che noi non ci saremmo mossi verso le riforme e che ci sarebbe stato titolo per questi ultimi di sfruttare a livello internazionale un conflitto all’interno della Siria, tra uno Stato che non vuole le riforme e le persone che vogliono la riforma, la libertà o cose simili.

Quando abbiamo iniziato la riforma, questa cosa è stata confusa per loro, così hanno spostato la questione della Lega araba o l’iniziativa araba. La verità è che se vogliamo seguire questi paesi, che ci danno consigli, dobbiamo andare indietro di almeno un secolo e mezzo. Quello che è successo un secolo e mezzo fa? Siamo stati parte dell’Impero Ottomano e abbiamo avuto il primo parlamento, di cui ci siamo occupati in un modo o in un altro. Il primo parlamento è stato aperto nell’anno 1877 e se lo mettiamo da parte, il primo parlamento in Siria è stato nel 1919, che significa meno di un secolo fa. Quindi, immaginate questi paesi che vogliono darci suggerimenti di democrazia! Dove erano questi paesi a quel tempo? Il loro status è come lo stato di un medico del fumo che consiglia al paziente di smettere di fumare mentre gli mette una sigaretta in bocca.

L’indignazione araba, o la reazione pubblica in Siria nei confronti del problema della Lega Araba, sono stati il risultato finale. In realtà, non ero arrabbiato, perché arrabbiarsi con qualcuno che non conosce la sua decisione. Se qualcuno ci attacca con un coltello, non difendiamo noi stessi lottando con il coltello, ma con la persona. Il coltello è solo uno strumento. La nostra lotta non è con queste persone, ma contro coloro che stanno dietro di loro. La reazione del pubblico è stata sdegno, indignazione e sorpresa: perché gli arabi non stanno con la Siria, piuttosto che levarsi contro la Siria? Ho una domanda: quand’è che si schiereranno con la Siria?! Non voglio tornare indietro nel lontano passato, ma dobbiamo solo parlare degli ultimi anni. Cominciamo con la guerra in Iraq, dopo l’invasione, quando la Siria è stata minacciata di bombardamento ed invasione. Chi stava con la Siria nel 2005, quando hanno sfruttato l’assassinio di Hariri? Chi stava a fianco della Siria nel 2006? Chi ha sostenuto le nostre posizioni contro l’aggressione israeliana contro il Libano nel 2008? Chi ci ha sostenuto nella sede di AIEA, in relazione al presunto file nucleare? Gli stati arabi hanno votato contro di noi. Questi fatti potrebbero essere sconosciuti a molti cittadini. È per questo che abbiamo bisogno di spiegare tutto in questi momenti e situazioni.

Recentemente, gli Stati arabi hanno votato contro la Siria in merito alla questione dei diritti umani. Al contrario, alcuni paesi non arabi si sono schierati con la Siria. Questo è il motivo per cui non dovremmo essere sorpresi. Voglio dire che non dovremmo essere sorpresi per le posizioni della Lega Araba, perché sono solo un riflesso della situazione araba. La Lega araba è uno specchio della nostra situazione.

La Lega Araba riflette la nostra miserabile situazione attuale. Se ha fallito in oltre sei decenni a prendere una posizione nell’interesse arabo, perché ci sorprendiamo oggi, che il contesto generale è lo stesso e non è cambiato se non nel senso che sta spingendo la condizione araba di male in peggio, e che cosa stava accadendo in segreto ora sta accadendo in pubblico, con lo slogan dell’interesse nazionale.

La Lega Araba ha effettivamente ottenuto l’indipendenza per i suoi stati, e di conseguenza per se stessa? Ha mai attuato le sue decisioni e rimosso la polvere dai propri propositi e raggiunto un solo frammento delle aspirazioni dei popoli arabi? O ha contribuito direttamente a spargere i semi della sedizione e divisione? Ha rispettato il suo statuto e difeso i suoi Stati membri, i cui terreni e diritti dei popoli sono stati violati? Ha restituito un albero di ulivo sradicato da Israele o impedito la demolizione di una casa palestinese nei territori occupati della Palestina araba? E ‘stato in grado di evitare la divisione del Sudan o impedire l’uccisione di oltre un milione di iracheni, od ha sfamatoun solo somalo affamato?

Oggi, non siamo in procinto di attaccare la Lega Araba, perché noi siamo parte di essa, anche se siamo nell’era della decadenza. E non sto parlando della Lega araba perché gli stati arabi hanno preso la decisione di sospendere l’appartenenza della Siria ad essa. Questo non ci riguarda per niente. Sto parlando, perché ho ​​notato la misura della frustrazione popolare, la quale abbiamo bisogno di mettere nel suo contesto naturale. La Lega araba è stata condannata per un lungo periodo. Quando ci sedevamo ai vertici arabi ad ascoltare critiche e denunce la cui eco risuonava in sale conferenza, siamo stati soliti parlare di questo candidamente, come funzionari arabi; alcuni si sono vergognati ed alcuni si sono comportati come se fossero cose che non li riguardavano affatto. Quindi, essendo fuori della Lega Araba, l’appartenenza o la sospensione della Siria, e tutto questo gran parlare, non è il problema. Il problema è chi vince e chi perde. Perde la Siria o la Lega Araba? Secondo noi, noi e gli stati arabi perdiamo sino a quando la condizione araba va male . Questa è una situazione cronica, nulla di nuovo in essa, e non ci sono vincitori. Abbiamo lavorato per anni per ridurre al minimo le perdite, perché non è possibile vincere. Ma sospendere l’adesione della Siria solleva una questione: il corpo può vivere senza un cuore? Chi ha detto che la Siria è il cuore pulsante dell’arabismo? Non era un siriano, è stato il presidente Abdul Naser, e questa è ancora e sempre la verità.

Molti arabi hanno la stessa convinzione. Per la Siria ‘arabismo’ non è uno slogan, è una pratica. Chi ha offerto più della Siria, ed ancora sta offrendo e pagando il prezzo? Chi, più della Siria, ha offerto alla causa palestinese in particolare? Chi, più della la Siria, ha dato al processo di arabizzazione della cultura e dell’istruzione in tutto il mondo, nei mass media? La Siria è molto rigorosa circa arabizzazione, in particolare nei programmi scolastici. Chi ha offerto di più per arabismo e arabizzazione ed ha insistito sulla cultura araba nei programmi scolastici, più di quello che la Siria fa nelle scuole e nelle università? Questo problema per noi non è uno slogan. Se alcuni paesi cercano di sospendere il nostro arabismo nella Lega, diciamo loro che stanno sospendendo l’identità araba della stessa Lega. Essi non possono sospendere l’identità araba della Siria. Al contrario, la Lega senza la Siria sospende la propria identità araba.

La Lega Araba senza la Siria significa la Sospensione dell’Arabismo

Se alcuni ritengono di poterci tirare fuori della Lega, non possono tirarci fuori della nostra identità araba, perché l’identità araba non è una decisione politica. Essa è patrimonio e storia. Questi paesi, che conoscete, non hanno acquisito, e non acquisiranno, l’identità araba. Se credono che con i soldi possono comprare un po’ di geografia e affittare un pò di storia, diciamo loro che il denaro non fa nazioni o crea civiltà. Di conseguenza, come ho già sentito da molti siriani, e sono d’accordo con loro su questo punto, forse nella nostra condizione attuale siamo più liberi nell’esercizio del nostro arabismo, reale e puro, che i siriani sono stati i migliori ad esprimere nel corso della storia. Questo è il motivo per cui noi diciamo che con tale tentativo essi non realizzano l’uscita della Siria dalla Lega, ma piuttosto la sospensione dell’arabismo stesso, in modo che essa diventi una Lega Araba solo di nome. E non sarà più una Lega – per tenere insieme le persone – o Araba. Sarà un finto corpo-arabo, per essere in linea con le loro politiche ed il ruolo che stanno giocando sulla scena araba. Altrimenti, come potremmo spiegare questo tatto senza precedenti ed irragionevole con il nemico sionista, in tutto ciò che fa, e questa decisione e durezza con la Siria?

Abbiamo cercato per anni per attivare un gabinetto per il boicottaggio di Israele, e abbiamo ricevuto scuse del tipo che questo non è più accettabile, ma, in poche settimane, attivano un boicottaggio contro la Siria. Ciò significa che il loro obiettivo è la sostituzione della Siria con Israele. Questo è il disegno, e noi non siamo ingenui. Conosciamo questa condizione araba da molto tempo. Non siamo attaccato alle illusioni. Mostrando la nostra pazienza riguardo a tali pratiche, prima e durante questa crisi, abbiamo voluto dimostrare a tutti coloro che hanno i loro dubbi circa le cattive intenzioni, avvolte in una bella e ornata lingua, che le loro intenzioni sono cattive ed i loro obiettivi sono vili. Credo che ormai questo sia diventato evidente ai più.

Noi Non Potremo Chiudere Mai la Porta a Qualsiasi Sforzo Arabo, Sinchè Esso Rispetta la Nostra Sovranità, l’Indipendenza delle Nostre Decisioni e l’Unità del Nostro Popolo

Noi realizziamo tutto questo. Ma sulla base del nostro genuino carattere arabo, e sul nostro desiderio di ripristinare l’originale idea della Lega araba, in cui siamo sostenuti da alcune nazioni sorelle incline a fare della Lega Araba un corpo davvero collettivo e arabo, non abbiamo chiuso le porte a qualsiasi soluzione o proposta, e non potremo mai chiudere la porta a qualsiasi sforzo arabo a condizione che rispetti la nostra sovranità, l’indipendenza della nostra decisione e l’unità del nostro popolo.

Tutti questi accumuli negativi sulla scena araba, da decenni, oltre alla situazione attuale, hanno portato alcuni dei nostri cittadini ad esternare la loro rabbia contro l’arabismo, che è stato erroneamente confuso con la Lega Araba o con la sceneggiata di alcuni pseudo-arabi nella misura in cui lo essi l’hanno denunciato.

Fratelli e sorelle,

La struttura sociale del mondo arabo, con la sua grande diversità, si basa su due pilastri forti e integrati: arabismo e l’Islam. Entrambi sono grandi, ricchi e vitali. Di conseguenza, non possiamo biasimarli per le pratiche umane sbagliate. Inoltre, la diversità musulmana e cristiana nel nostro paese è un pilastro importante del nostro arabismo e fondamento della nostra forza. Quando ci arrabbiamo con l’arabismo, o l’abbandoniamo a causa di quello che alcuni hanno fatto in questo largo campo arabo, commettiamo un grande ingiustizia. Come ci siamo rifiutati di generalizzare gli errori fatti da alcuni funzionari per l’intero paese, non dobbiamo generalizzare gli errori di alcuni pseudo-arabi commessi nei confronti dell’arabismo. Quello che stiamo facendo ora è simile a quello che l’Occidente ha fatto contro l’Islam, sulla scia del 9/11.

Diciamo che c’è una grande religione – l’Islam, e che ci sono terroristi i quali prendono riparo sotto la copertura dell’Islam. Chi dovremmo bandire: la religione o il terrorismo? Dobbiamo denunciare la religione, o i terroristi? Combattiamo coloro che commerciano nell’Islam, o combattiamo il terrorismo? La risposta è chiara: non è colpa dell’Islam se ci sono terroristi che prendono copertura sotto il manto dell’Islam.

Il cristianesimo è una religione di amore e di pace. Qual è la colpa del cristianesimo nelle guerre intraprese sotto il suo nome e nei crimini commessi nel cuore d’America, o nei paesi europei da parte di persone che affermano di essere attaccate a valori cristiani? Lo stesso vale per l’arabismo. Non dobbiamo collegarlo a quello che alcuni pseudo-arabi stanno facendo, altrimenti ci indirizziamo verso un peccato più grande. Ci sono cose che esistono attraverso un processo storico e non possiamo rispondere ad esse con un semplice atto o una decisione. Queste cose non hanno avuto luogo attraverso una decisione. C’è un contesto storico e vi è una volontà divina dietro le religioni e le nazionalità, le quali non possiamo affrontare per reazione.

La prima reazione è stata di proporre il concetto “prima la Siria”. E ‘naturale mettere la Siria per prima. Ogni persona appartiene al suo paese prima di tutto. La propria patria non può essere al secondo, terzo o quarto posto, ma il contesto in cui è stato fatto questo concetto è stato isolazionista – solo la Siria.

Ogni persona appartiene prima alla sua città più di altre città. Egli è naturalmente collegato ad essa. A tutti piace il paese in cui è cresciuto, più di altri villaggi, ma questo non impedisce di essere patriottici e come l’insieme della patria. Essere siriani non ci impedisce di essere arabi, ed essere arabi non crea alcuna contraddizione tra la nostra identità araba e quella siriana.

Ecco perché dobbiamo sottolineare che il punto, che il rapporto tra arabismo e patriottismo è una stretta vitale per il futuro, per i nostri interessi e per tutto. Non si tratta di romanticismo o di principi. Si tratta anche di interessi. Se separiamo questo fatto dalla reazione, dobbiamo sempre sapere che l’arabismo è un’identità non un appartenenza registrata. Arabismo è una identità data dalla storia, non un dato certificato da un’organizzazione. Arabismo è un onore che caratterizza i popoli arabi, non uno stigma portato da alcuni pseudo-arabi sul palcoscenico del mondo arabo o politico.

Qualcuno potrebbe chiedersi tutto questo parlare di arabismo e arabi, mentre in Siria ci sono solo arabi. La mia risposta è: chi ha detto che stiamo parlando di una razza araba? Se l’Arabismo fosse stato solo la razza araba, non avremmo avuto molto di cui essere orgogliosi. L’ultima cosa nell’arabismo è la competizione. Arabismo è una questione di civiltà, una questione di interessi comuni, volontà comune e religioni comuni. Riguarda le cose che determinano tutte le nazionalità diverse che vivono in questo luogo. La forza di questo arabismo sta nella sua diversità, non nel suo isolamento e mancanza di colore. L’Arabismo non è stato costruito dagli arabi. L’Arabismo è stato costruito da tutti i non-arabi i quali hanno contribuito alla sua costruzione e da tutti quelli che appartengono a questa ricca società in cui viviamo. La sua forza risiede nella sua diversità. Se ci fosse stato un gruppo di non-arabi che avessero voluto cambiare le loro tradizioni e costumi e abbandonarli, ci saremmo loro opposti con la motivazione che avrebbero indebolito l’arabismo. La forza del nostro arabismo si trova nell’apertura, diversità e nel mostrare questa diversità non integrandola a vedersi come un unica componente. L’Arabismo è stato accusato per decenni di sciovinismo. Questo non è vero. Se ci sono persone scioviniste, questo non significa che l’arabismo è sciovinista. Si tratta di una condizione di civiltà.

Tutto ciò non influenzerà la nostra visione della situazione interna in Siria e come affrontarla. Non c’è dubbio che gli eventi attuali e le loro ripercussioni hanno posto un gran numero di domande e di idee che mirano a trovare soluzioni diverse per la situazione attuale che la Siria sta attraversando. Se è naturale ed evidente, non può essere positivo ed efficace, tranne quando si basa sull’importanza di affrontare il problema e non fuggire da esso, o quando si basa sul coraggio di non farsi prendere dal panico e darsi alla fuga.

Noi Non Possiamo Attuare una Riforma Interna senza Trattare con i Fatti

Se vogliamo parlare della situazione interna – e penso che sia la questione su cui si concentrano tutte le ‘preoccupazioni dei siriani – dobbiamo identificare i problemi in modo chiaro. Ci sono numerose idee, che potrebbe essere buone. Ma a meno che non siano messe in un adeguato schema di lavoro rimangono inutili e talvolta dannose. Invece di avere idee in movimento in contraddizione ed in lotta tra loro, cerchiamo di trarre alcune definizioni, prima di entrare nei dettagli.

In primo luogo, non possiamo effettuare una riforma interna senza confrontarci con i fatti così come sono sul terreno, che ci piaccia o no. Non possiamo aggrapparci ad una cannuccia in aria. Né la paglia, né l’aria ci porteranno. Significherebbe cadere. Sotto la pressione della crisi, alcuni parlano di ogni soluzione e invocano ogni tipo di soluzione. Noi non daremo ‘qualsiasi’ soluzione. Ci limiteremo a dare ‘soluzioni’. Soluzioni significa che i risultati sono noti in anticipo. ‘Qualsiasi soluzione’ porterà al baratro. Potrebbe portare ad aggravare la crisi. E ci può far entrare in un vicolo cieco. La pressione della crisi non ci spingerà ad adottare solo ‘un’ piano. Anche se il tempo è molto importante, non è più importante della qualità della soluzione che potremmo fornire.

Oggi, si tratta di due aspetti della riforma interna: la prima è la riforma politica e la seconda è la lotta al terrorismo, che si è diffuso recentemente in diverse parti della Siria. Nel processo di riforma, ci sono quelli che credono che quello che stiamo facendo ora è la via per uscire dalla crisi, o è l’intera soluzione alla crisi. Questo non è vero. Noi non lo stiamo facendo per questo motivo. Il rapporto tra la riforma e la crisi è limitato. In principio, ha avuto un ruolo maggiore, quando abbiamo deciso di separare coloro che pretendono le riforme per finalità terroristiche, da coloro che sinceramente vogliono le riforme. Questo è successo. La mia visione fin dall’inizio fu che non vi era alcuna relazione tra i due gruppi, ma non è stato poi facile parlarne perché, come ho detto, le cose non erano chiare per molti siriani come le hanno ormai chiare ora.

Qual è il rapporto tra il processo di riforma ed il complotto esterno? Saranno fermate le trame esterne contro la Siria se si introducono le riforme entro oggi? Vi dirò una cosa. Sappiamo molto di discussioni che hanno avuto luogo al di fuori della Siria, in particolare in Occidente, circa la situazione in Siria. Nessuno di coloro che sono coinvolti in queste discussioni si preoccupa né del numero delle vittime, né delle riforme, né di quanto è stato fatto, né di quello che sarà raggiunto. Tutti parlano di politica della Siria e se il comportamento della Siria sia cambiato dall’inizio della crisi fino ad ora.

Fonte: http://libyanfreepress.wordpress.com/20 ... o-parte-1/
Lorenzo Lenzi
 
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Re: NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vis

Messaggioda Lorenzo Lenzi » 16/01/2012, 22:28

La rosa purpurea di Damasco
Non credere a nulla solo perché ti è stato detto. Non credere a quanto il tuo maestro ti dice, solo per rispetto per il maestro. Ma qualunque cosa tu, dopo accurati esame e analisi, trovi essere gentile, vettore al bene, al giusto, al benessere di tutti gli esseri, fanne dottrina in cui credere e a cui attenersi. Fanne la tua guida. (Gautama Siddharta)

Accettiamo la qualifica della rosa come fiore più bello, fiore per antonomasia, metafora del bene, dell’amore, della gentilezza, dell’umanità che rimane se stessa Per esempio, finchè negli Stati Uniti non sanno decidersi se essere statunitensi o esseri umani (ma parecchi, negli ultimi tempi, si sono avvalsi della scelta), in quel paese non cresceranno rose e quelle che vi appaiono sono finte, come è finto cibo l’hamburger McDonalds e finta bevanda la Coca Cola, e finto presidente e finto democratico Barack Obama. Parto con questa storia di rose, perché quando l’altro giorno me sono venuto via da Damasco, avevo dietro tutta una scia di profumi di rose, che ancora mi circonfonde, e nel cuore una specie di Graal. Ma non l’hollywoodiana menata criptomassonica per dementi esoterici che, trovando la mitica coppa, contano di acchiappare le redini del mondo. Il Graal, al contrario, come epitome del sangue versato per l’uomo, la giustizia, la verità, la felicità. Mica da un Cristo immaginario. Da chiunque, dagli iracheni, serbi, afghani, libici, tantissimi altri, in resistenza contro l’orrido mostro della regressione a un passato ferino e cannibale. Oggi dal popolo di Siria.

Ho fatto un viaggio nel fiore della migliore umanità, quella della quale noialtri al Nord ci stiamo scrostando di dosso gli ultimi petali. E quel fiore, appunto la rosa di Damasco, purpurea di sangue e passione, era diventato il mio personale Graal, in sostanza una luce che rischiara la corretta via nella notte, per come me lo ha tradotto in parole un uomo, un siriano, un grande arabo.

Si chiama Adam Mohammad, il responsabile di tutte le comunicazioni tv in Siria, con il quale, in un convivio sull’altura che ti permette di raccogliere negli occhi l’intera capitale, abbiamo unito la fantasmagoria di una cucina che non conosce manipolazioni chimiche, alla discussione su qualche punto cardinale della vita, da Gilgamesh a Ibsen, da Averroé a Tommaso d’Aquino, dai fenici che depositavano sulle spiagge sicule miele, olive e datteri e dettero così inizio agli scambi tra comunità unite dal lago mediterraneo, fino a Freud. Ha ripetuto, ha indirizzato a noi tutti, il voto che quasi ogni siriano incontrato mi ha espresso: impediamo che questo mare, intorno al quale sono sorte le migliori civiltà, diventi un oceano, come vorrebbe chi costruisce il suo dominio sulla frantumazione. E’ che, incredibilmente, da quelle parti, specularmente alla nostra razzista indifferenza, si guarda a noi con affetto, come a gente di una famiglia allargata e ne sono simbolo proletario sui ragazzetti le maglie di Milan o Roma, o della Nazionale, uniche tra quelle di paesi calcisticamente più blasonati, ma fuori dal Mediterraneo. Gridavano Paolo Rossi e Baggio, oggi ti offrono un rapporto, gioioso per quanto effimero, chiamando Totti o Ibrahimovic. La rosa che Adam, a esaltare tutte le rose raccolte nei percorsi umani su tutte le vie di Damasco del mondo, mi ha consegnato ha10 petali. A sua volta l’ha avuta in dono da suo padre. E’ una rosa che per noi, ingabbiati nel sospetto, nella diffidenza, nella paura, fin nell’odio per chi ti corre accanto, ha un sapore antico, di riscoperta archeologica: “Devi ritenere buono chiunque incontri. Fino alla prima esperienza negativa”. Elementare, direbbe Sherlock Holmes. Tanto semplice che noi, ingorgati nella civiltà dell’individualismo e della competizione, del vicendevole sbranamento, non riusciamo più a concepire, tanto meno a praticare. Da noi vale l’homo homini lupus. Nella cinica formula di chi se ne intendeva: “A pensare male si fa peccato, ma ci si prende”. Picciotto tra picciotti.

Sono in un paese, dove il detto del padre di Adam (un dio?) è principio di vita, si esprime in sorrisi a prescindere, in ospitalità che è gioia prima di tutto dell’ospitante, in delicati segni di amicizia. Eppure è un paese infestato da stranieri dalle cattive intenzioni, da visitatori col coltello dietro la schiena, da giornalisti ai quali il mandante planetario ha intimato il motto contrario: tutti cattivi, specie se di un altro ordine sociale, di un altro colore, di un’altra cultura, di un’altra religione, di un altro genere, di un’altra età, e neanche fino alla prima esperienza positiva. Che infatti non si vuole vedere mai, minerebbe la legge naturale della nostra superiorità, del nostro diritto di andar lì e uccidere chi rifiuta la logica del diverso da abbattere e consumare.

Per un ritardo e una coincidenza aerea bucata, sono giunto a Damasco da Amman via terra. Carico di tecnologie di ripresa e registrazione, al posto di frontiera siriano mi hanno guardato con severa attenzione. Loro, sì, hanno saputo dei giornalisti occidentali infilati in Libia, sia per capovolgere la realtà che vivevano, sia per passare ai fucilatori alle consolle del Nevada o di Sigonella le coordinate per sfoltire popolo in eccesso e polverizzare strutture da affidare a ricostruttori stranieri nel quadro della globalizzazione dei predatori. Qualche telefonata ha allentato la circospezione, ma decisiva è stata la scoperta, nel mio bagaglio, delle copertine di due miei docufilm: quello su Piombo Fuso contro Gaza e quello sul martirio della Libia. Più perspicaci di qualsiasi congegno elettronico usato per penetrare la tua intimità e agguinzagliarti alla paura, come quelli che abusano di noi agli aeroporti per farci convinti che il terrorismo lo fanno gli altri, i doganieri siriani mi hanno capito e accolto, subito, a suon di pacche sulle spalle, bibite, tè e pasticcini.

Vorrei rovesciare il sangue di Gilles Jacquier, reporter di France 2, i frantumi del suo corpo scaraventati dalla granata di mortaio sulle pareti del Centro Comunitario di Homs, in faccia ai cialtroni di Al Jazira e di tutte le emittenti embedded in Nato, quando inveiscono contro “l’autocratico e sanguinario Bashar El Assad che non consente alla stampa straniera di entrare in Siria e documentare quelle che si dicono le atrocità genocide del regime”. Gilles e altri colleghi esteri erano andati a Homs, appena poche ore dopo che c’ero stato io con un gruppo che comprendeva inviati britannici, tedeschi, austriaci, spagnoli, cubani, cinesi, turchi, giapponesi, cinesi, norvegesi, russi. La stessa sera, dagli schermi delle emittenti di cui sopra, facce di tolla deploravano con indignato sussiego che, appunto, in Siria non erano accetti giornalisti stranieri. Professionisti, magari con qualcuno onesto tra loro, che trasmettano da qui storie con anche solo briciole di verità, devono essere sepolti dall’uragano delle “testimonianze dirette” e dalle veline Cia dettate ai vari organismi umanitaristi di fuorusciti siriani incistati all’ombra di Westminster, o della Casa Bianca.

Già c’era stata la deplorevole esperienza degli osservatori della Lega Araba, arrivati pochi giorni dopo Natale e che, pur selezionati e spediti dalla cosca reazionaria del Golfo che controlla l’organismo, erano stati costretti dall’evidenza a demolire il castello di menzogne costruito dalle “testimonianze degli attivisti” e dal quale ci hanno bombardato conoscenza e coscienza. Li ho incrociati varie volte, perplessi, perché quanto vedevano e sentivano non corrispondesse all’agenda dettatagli dai satrapi del Golfo. Hanno battuto palmo per palmo la Siria, per settimane e settimane, sono penetrati in ogni angolo delle presunte città-martiri, Homs, Hama, Daraa, Idlib, e il peggio che gli è capitato era di essere circondati da gruppetti di facinorosi che denunciavano invisibili e in documentate atrocità di regime. Nonostante fossero l’emanazione tossica di una Lega che non rappresenta ormai che petrodollari, dittature monarchiche e interessi occidentali, non sono proprio riusciti a scovare segni della brutale repressione attribuita ad Assad, dei 5000 morti sanciti dall’ONU su imbeccata non di suoi ispettori, o di parti terze, ma esclusivamente dei mai verificati “attivisti”. E a proposito di questi 5000, cresciuti a dicembre in quattro giorni da 4000 e che ricordano le cifre a pene di segugio e a fini di consenso alle guerre diffuse su Srebrenica, sui curdi “sterminati da Saddam”, sulle fosse comuni di Gheddafi, non fosse per la dabbenaggine comatosa dell’opinione pubblica qualcuno avrebbe pur potuto pretendere, per un minimo di serietà, dati disaggregati: di questi 5000 manifestanti uccisi (di cui oltre 300 bambini: fa il massimo effetto), quanti civili, quanti miliziani armati, quanti dove, quanti da chi. Per il governo siriano le vittime complessive, di tutte le parti, erano dopo 11 mesi circa 3.500, di cui oltre 2000 delle forze dell’ordine, con tanto di identificazione e immagini. E, alla luce dei documentati oppositori armati (i ratti Al Qaida venuti dalla Libia, i miliziani infiltrati da Libano, Turchia, Giordania, definiti tutti “disertori” dell’esercito, le ingenti quantità di armi, anche israeliane, sequestrate ai confini), alla luce della presenza, in basi di addestramento in Turchia, Giordania e Libano, di forze speciali Nato e del Qatar, uno è portato dall’alluvione di probabilità a credere al governo. Anche l’ordine di Assad di non usare armi da fuoco contro manifestanti civili e lì da vedere presso ogni reparto della Sicurezza. Qualcuno avrà disobbedito, magari ne andava della vita, ma l’ordine questo era. Mentre qui abbondano le immagini di cecchini che da ripari sparano su cortei, poliziotti e soldati, mai mostrate in Occidente, nel Gran Guignol di cadaveri allestito dagli “attivisti” e diffuso dai media (che hanno meticolosamente occultato i corpi dei militari uccisi e il loro numero), non si è potuta trovare un’immagine dei terribili “miliziani” di Assad e dei suoi carri armati mentre sparano sulla folla. Eppure avrebbe dovuto essere facile.

A proposito di folle, quelle dell’opposizione le ho viste sugli schermi di internet e dei media e non c’era in mezzo neanche l’ombra di una donna, neppure di quelle incarcerate nel niqab nero caro ai “democratici rivoluzionari”. Invece a Homs, dappertutto e, quotidianamente, nella piazza delle Sette Fontane a Damasco, sono stato sommerso da moltitudini anche di donne che inneggiavano a Bashar e alla resistenza contro i cospiratori di Nato, tirannie integraliste del Golfo e la loro fanteria islamista. Anche al Cairo, anche a Tunisi, nella Libia di Gheddafi, perfino in Arabia Saudita, erano le donne a infoltire le prime file. Sarà questa, la partecipazione o meno di donne, la discriminante tra primavere vere e regime change agli ordini dell’imperialismo? Capiterà, come in Libia, che quelle adunate milionarie, che nessun partito sarebbe capace di “comandare” ininterrottamente per mesi, compaiano nei servizi di Al Jazira e codazzo mediatico occidentale travestite col fotoshop da manifestazioni “dell’opposizione”. In Libia a questi “informatori” scappò una bandiera indiana e qualche turbante sikh in quella che era stata fatta passare per la sollevazione di Bengasi. Pensate di cosa è capace l’emittente dell’emiro del Qatar: incollerita per come gli osservatori della Lega Araba, nonostante i rinforzi mandati dalle petrodittature, insistano a trovare accettabile la situazione e arrivino addirittura a esigere la fine delle violenze – inaudito! - a entrambe le parti, sbraita la notizia che, dopo otto giorni dall’arrivo degli osservatori, nonostante questi non abbiano visto alcunché del genere, ben 400 persone erano state ammazzate dalle “milizie” di Assad. E come illustra tale bufala? Con le immagini dell’attentato a Damasco del 23 dicembre, quello contro i servizi di Sicurezza, destinate a far credere che si tratta di vittime del regime.

Quello degli osservatori, spediti per inchiodare la Siria a responsabilità tali da giustificare un’aggressione, è stato il più formidabile autogol dall’inizio della cospirazione. Inevitabilmente, dati i mandanti, il rapporto finale farà le acrobazie necessarie a criminalizzare Assad e il popolo che lo sostiene. Ma sarà difficile eliminare lo stupore, o almeno i dubbi, con cui le dichiarazioni sul campo degli osservatori hanno lacerato la blindatura di bugie sotto la quale colonialisti e monarchi tentano di celare la realtà della Siria.

Sono riuscito a riprendere un fatto, emblematico al confronto delle chiassate anti-regime androcratiche e deserte di donne. Siriane di ogni età, religione, etnia, ogni giorno si radunano in piazza e si esibiscono nel taglio collettivo dei capelli. Significato? Antonia, cristiana, sottobraccio ad Amina, musulmana, me l’hanno spiegato, esibendo ciuffi di chioma raccolti in fazzoletti con i colori della bandiera: “E’ il segno che siamo uguali agli uomini e, come loro, combattenti per il nostro paese; che nessuno s’illuda che, nascoste sotto il niqab, ci rassegneremo a tornare a guardare al mondo per una fessura di due centimetri e a valere nel matrimonio e nei diritti un terzo degli uomini”.

Ho intervistato tanta gente, di strada, in famiglia, nelle riunioni dei congiunti, negli uffici, anche il vescovo cristiano orientale di Damasco, Toni Dora, capo di un movimento pacifico di opposizione. Una valutazione era comune a tutti, sostenitori del governo e oppositori onesti: Bashar el Assad non viene discusso. Nessuno che non lo consideri onesto, corretto, di buona volontà e assolutamente credibile nelle sue proposte di riforma, di modifica della Costituzione, di elezioni affidabili, di multipartitismo, di riassetto dello Stato in senso trasparente e partecipativo, di riconciliazione nazionale contro ogni cedimento a mire colonialiste e di vassallaggio. Proposte lanciate e rilanciate, in corso di elaborazione, con elezioni fissate per i primi mesi del 2012.

Nessuno che non sia consapevole delle mire di divisione e depredazione occidentali con l’utilizzo dei Fratelli Musulmani e dei salafiti di Al Qaida. E che non veda nel fondamentalismo ultrà, ma detto “moderato” da noi, già vincente in Egitto, Tunisia, Marocco e in travolgente avanzata in Libia, la fine di una Siria libera, laica, progressista, sovrana. Le critiche vanno piuttosto in direzione di settori dell’establishment a cui si attribuiscono un’ossificazione e una distanza che, come ovunque e peggio da noi, inesorabilmente si accompagnano a corruzione capillare e di alto bordo. C’è chi lamenta una presenza ossessiva dei servizi di sicurezza, vagheggia un Occidente democratico che non sa defunto, seppure mai esistito, del tutto televisivo e cinematografico, e però dimentica che da oltre 45 anni la Siria è sotto schiaffo israelo-occidentale, assediata, spesso colpita nei suoi uomini e nei suoi apparati, rapinata di territorio, infestata da provocatori e spie come fossero cavallette d’Egitto. Lasciare in queste condizioni finestre e porte aperte fa rischiare l’ingresso di correnti letali. Lasciamola in pace, la Siria, tagliamo le unghie alla rapacità genocida di Usa, Ue e Israele e vediamo che paese ne viene fuori.

Nella chiesetta cattolica di Bab Tuma, il giovane parrocco, con i banchi pieni di cristiani iracheni, fuggiti dal terrore del fanatismo scita (la Siria generosamente ne ospita e alimenta un milione e mezzo e, sicuramente, anche questa è una colpa agli occhi di wahabiti, salafiti e fratelli cristiani occidentali ), mi chiede timoroso di non registrarne le parole. Parole di pena e paura che gli suggerisce la prospettiva che per i cristiani di Siria vada a finire come per quelli dell’Iraq. Una comunità ridotta di due terzi dopo la scomparsa di Saddam. Un’apprensione che albergherà anche nelle frotte di giovani donne in abiti e atteggiamenti liberi e laici che scintillano nel traffico umano delle città siriane.

Da sotto la giacca del vescovo Dora, tre lauree, traluce una pistola. E’ l’effetto delle tante minacce di morte ricevute e del rischio per i propri figli, nell’andare a scuola, di finire in uno degli innumerevoli sequestri di persone non allineate alla sedizione golpista e alqaidista. “Il cuore della mia teologia è il secolarismo”, dice il prelato. “I regimi religiosi alla fine cadranno perché non sanno offrire soluzioni ai problemi sociali, alle ingiustizie, al bisogno di libertà. La carità che praticano non è una soluzione di giustizia e dignità. Per il nostro paese l’unica soluzione è il dialogo tra benintenzionati. Quello che viene rifiutato solo da chi intende mettere a ferro e fuoco il paese. Succederà quando ogni parte si convincerà che non raggiungerà una vittoria totale, quella che eliminerebbe l’altro del tutto. Per avviare questo dialogo è necessario tagliar fuori gli elementi che non si battono per la Siria e per il suo popolo, ma obbediscono a un ordine del giorno straniero.Tutti quelli che vanno in corteo appresso a Bernard Henry Levi, uno che si dice filosofo e che non è altro che un piromane arrampicato su montagne di corpi inceneriti, al servizio degli incendiari del mondo”. Così parlò il vescovo di Damasco, presidente del Movimento di Opposizione Indipendente Patriottico (IPOM), ma c’è da dubitare che Usraele e la cupola bellico-finanziaria occidentale si convincano a far dialogare e a rinunciare alla vittoria. Per quella, del resto, basta ridurre la Siria in Stato fallito, frazionato, dilaniato da conflitti tribali, confessionali, politici, come tutti i paesi brutalizzati e desertificati dalla Superiore Civiltà, Iraq, Afghanistan, Jugoslavia, Somalia, Libia, Haiti… Basta che non esistano sovranità, protagonismo nazionale e, nello specifico, sostenitori di Iran, palestinesi, Hezbollah, Hamas, amici della Russia, della Cina, dell’America Latina.

E se non ce la fanno le fanterie islamiste, sono pronti sia la No Fly Zone da bombardamento, sia il Corridoio Umanitario ove innestare un “governo provvisorio”, invocati entrambi, con sempre maggiore forza, dal sedicente Consiglio Nazionale Siriano, coccolato da Erdogan a Istambul, o dai Coordinamenti dei Comitati Locali, o dalla “Free Syrian Army” messa su da Qatar, sauditi e turchi con la supervisione di tagliagola francesi e britannici, o, ancora, da quella vetrina del MI6 che è, a Londra, l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani.

Il reporter Jacquier era all’incontro con le famiglie di Akrama e Al Nuzha, quartieri di Homs, città laureata da “attivisti” e media capitale dell’insurrezione. Gli sono arrivati addosso due granate di mortaio e un proiettile di RPG. Con lui sono morte altre 7 persone, più di 50 i feriti. L’ennesima.strage dei “rivoluzionari”. Aveva sicuramente lo stesso scopo di quella cannonata stragista del tank Usa contro l’Hotel Palestine, quartier generale di noi giornalisti cui Bush aveva ordinato di non restare a Baghdad. Nessuno che non sia embedded nelle “forze del bene” deve poter scrivere, riprendere, trasmettere. Noi giornalisti stranieri in quel luogo c’eravamo stati il giorno avanti, i primi di questo nuovo ciclo di visite, e forse, visto che il nostro percorso è stato identico, siamo serviti ai terroristi a prendere le misure per il massacro.

Abbiamo percorso la città di 900mila abitanti in lungo e in largo. Come già al mio arrivo via terra dalla Giordania, lungo la serie di città che, a partire da Daraa, erano definiti focolai di una rivolta irriducibile, con una sequenza di morti da 30-40 al giorno, anche qui la vita scorreva normale, qualche negozio chiuso (qui i “rivoltosi” chiedono il pizzo, sennò…), molti aperti, moltissime bancarelle, piazze e vie centrali immerse nel via vai della spesa, dei capannelli, dello struscio, del lavoro. Neanche l’ombra di un tank, di un blindato, di soldati, nemmeno lungo strade d’accesso dall’ampia visibilità desertica. Ci siamo mescolati alla gente, senza guardie, senza alcuna misura di sicurezza, e non abbiamo ricavato che rifiuti al terrorismo degli islamisti e desiderio di pace. Non che a Homs e in posti analoghi non ci siano oppositori e non vi si rintanino gli elementi armati al soldo della destabilizzazione. Un nucleo tradizionale e consolidato di Fratelli Musulmani gli ha fatto da brodo di coltura. Ne ha saputo qualcosa il giovane film-maker francese. Ma anche noi, poche ore prima, seppure senza esiti tragici sul momento.

Ci hanno fatto visitare l’ospedale civile (sanità e istruzione gratis in Siria, grave provocazione ai globalizzatori). Qualche sanitario, nessun degente se non al pronto soccorso, nosocomio vuoto. Una collega tedesca della RTL, isterica e provocatrice a 360 gradi, quanto può essere un soggetto decerebrato da ignoranza, pregiudizio e supponenza, dà in escandescenze: “Siete degli idioti, ci fate visitare un ospedale vuoto, ci nascondete la vostre vittime…” Chi ci accompagnava nel giro, siriani, spesso studenti, residenti all’estero, ma accorsi volontari nel loro paese per dare, dotati di conoscenze linguistiche, una mano nella gestione dei media stranieri, ci porta allora a vedere finestre e corsie perforate da pallottole. L’ottusa collega non aveva inteso la spiegazione dataci all’inizio: vi portiamo a vedere un ospedale vuoto di pazienti perché ripetutamente attaccato da elementi armati. I rivoltosi non vogliano far funzionare la città, la vogliono paralizzare a partire da strutture fondamentali come questa e poi darne la colpa ad Assad. Se feriscono, voglio far morire.

Aveva ragione il governatore della provincia di Homs, Ghassan Abudl Al, quando ci aveva detto che visitare quell’ospedale vuoto era istruttivo. Un altro, questo governatore, che, come tutti i siriani incontrati, esprime la sua, più attonita che irata, constatazione della “discrasia tra realtà effettiva e realtà riferita dai media”, delle riforme offerte e respinte sistematicamente, che ci giura come non ci siano zone controllate dai ribelli, che riflette come 11 mesi di repressione armata avrebbero dovuto allora provocare un numero ben maggiore di vittime, che ha visto manifestazioni di 200, 300 persone, con tra loro non più di 10 ribelli armati che sparano sui poliziotti, tramutate dai media in adunate oceaniche pacifiche e quelle da un milione e mezzo per Assad taciute. Il giorno prima a Homs erano stati uccisi sette civili cristiani e 10 delle forze dell’ordine, tutti registrati negli obitori, ma Al Jazira riportava 17 manifestanti sparati dai militari.

Come quando giravo per Tripoli vispa e pacifica e Al Jazira farneticava di combattimenti in tutte le strade e della solita proliferazione di “disertori dall’esercito del dittatore”. Qui qualche disertore c’è stato, ma porta i gradi e gli hanno riempito il conto in banca a Londra. Continuano ad essere arrestati uomini armati provenienti dalla Turchia e dal Libano, da dove li spedisce Saad Hariri, ex-primo ministro, amico della Nato e di Israele. Questi i dati del governatore per l’intero territorio nazionale dal marzo 2011: 3.707 uccisi, di cui 2.100 poliziotti e soldati, 324 rapiti e scomparsi; nella provincia: 415 soldati, 503 civili, 186 corpi non identificati. Contatti con l’opposizione? Non ce ne sono. Quella politica non ha né un programma, né rappresentanza e con quella armata non negoziamo.

Se era svuotato dalla paura degli attacchi terroristici il grande ospedale civile di Homs, quello militare, al quale i feriti colpiti dai cecchini non possono rifiutarsi, è colmo. Sono agenti e militari in condizioni a volte disperate, come quelli che avevo visto negli ospedali di Sliten e Tripoli in Libia, ma che almeno sono sfuggiti agli orrori che vediamo inflitti a civili e soldati nelle immagini dei cellulari mostrateci nel Centro Comunitario dei quartieri poi visitati, con esito tragico, dal gruppo di Gilles Jacquier. E’ un’esperienza straziante. Centinaia di donne e di anziani che si presentano alle telecamere con le foto incorniciate dei loro congiunti uccisi, con nei telefonini orrende sequenze di atrocità e torture inflitte dai “ribelli” alle vittime, gole tagliate, corpi smembrati, le stesse identiche procedure praticate a Bengasi, Misurata, Tripoli occupata, contro neri e “gheddafiani”. Se ne fanno garanti i mille lanzichenecchi trasferiti qui dalla Libia dal comandante militare dei ratti a Tripoli, il fondatore di Al Qaida in Libia, Abdel Hakim Belhadj. Questi padri, queste madri, queste figlie e sorelle, cacciati dagli scherani del colonialismo di ritorno in una galleria del terrore quotidiano, hanno i bei volti arabi segnati da un dolore che né pianti, né grida d’angoscia sanno rendere. Vi si accende una luce di affannata speranza quando ci chiedono, tutti, insistentemente, come l’invocazione a un santo, di dire là fuori, almeno noi, la verità. E’ su questa sanguinante umanità che la barbarie dei mercenari Nato ha fatto piovere, poco dopo, i suoi ordigni, portandosi via, oltre a chi quella verità rischiava di portarla via con sé, sette membri di questa comunità e lasciandone dozzine di feriti, mutilati, accecati.

Ne Homs, né Daraa, né Aleppo, né Damasco, né altre città appaiono militarizzate, come ci si aspetterebbe da un “regime che massacra la sua popolazione”. Circolano meno agenti armati che in qualsiasi nostra grande città e rispetto a un paese della sfera atlantica, come per esempio il Messico della presunta guerra al narcotraffico e della vera guerra di classe, la Siria è un parco giochi per bambini. Forse anche troppo, se l’antevigilia del Natale 2011 è stata celebrata dal terrorismo Nato, via terzi, con le autobombe contro gli edifici della Sicurezza nazionale, 25 morti, 50 feriti, in centro città, affollato nel venerdì di festa. Può darsi che le misure di protezione non siano adeguate, può darsi che le autorità siriane non si aspettassero una tale mostruosa escalation terroristica, ma può anche darsi che i maestri del terrorismo mondiale, quelli che sanno far venire giù torri gemelle, far saltare in aria metropolitane e treni e ammazzare uno dopo l’altro scienziati nucleari iraniani, abbiano voluto dar dimostrazione di una guerra contro la quale, alla fin fine, non ci sono difese. La guerra della paura, prima ancora che della morte. Da noi, la minaccia del baratro, della rovina meritata, per portare a termine la mattanza sociale. Da loro, la minaccia che la vita tua e dei tuoi figli è appesa al filo di una Parca le cui forbici non conoscono tregua, per farti desistere dalla resistenza e ricondurti alla schiavitù coloniale. Di fronte a questo sequitur, più che osceni, appaiono grotteschi i tentativi delle “opposizioni”, dei sicari della più forsennatamente feroce coalizione di Stati terroristi della storia, di scaricare sulla spalle del “regime” la responsabilità degli attentati. C’è una specie di transfert, qui: pensano che si possa far credere che anche altri compiano i crimini contro la propria gente di cui sono pratici loro. A partire dall’11 settembre 2001.

E’ stato in un altro venerdì, 6 gennaio, che ho avuto esperienza diretta di tale terrorismo dalle chiare impronte di specialisti USraeliani. Scelta degli obiettivi, manipolazione e utilizzo di operativi finali, organizzazione e mezzi, non sono sistemi padroneggiati dalla marmaglia raccogliticcia di mercenari di Libia, Qatar, Afghanistan. Questa volta l’esplosione (autobomba, uomo bomba?), non lontano dagli uffici governativi, è avvenuta davanti alla stazione di polizia del quartiere centrale di Al Maidan, sotto un cavalcavia dove era sistemato il parcheggio di auto della polizia e autobus urbani e dove scorreva il fiume della folla da e per la moschea. 26 morti, un centinaio di feriti, 11 poliziotti, altri civili a piedi o su bus. Un sottopasso scelto come camera di scoppio, per il massimo della strage. Carneficine del genere hanno sempre un marchio, un mandante. Quest’ultimo è sempre lo stesso, quelle dei missili sulle case degli uomini, quello degli assassinii mirati, quello della “guerra a bassa intensità”. Quello del terrorismo di Stato.

Con una corsa all’impazzata, tra vetture saettanti da e per il luogo dell’eccidio, sirene di polizia, vigili del fuoco, ambulanze, giungiamo sul posto mentre stanno portando via gli ultimi corpi. Quelli che si possono ancora definire tali, ché da muri, selciato, macchine sventrate, soffitti, si stanno raccogliendo, tra vaste pozze di sangue ancora rosso vivo che serpeggiano sul suolo formando arabeschi splatter, come quelle create dai rivi di sangue di mattatoio su terreno diseguale, frammenti di esseri umani: crani a metà, mani, viscere, grumi indistinguibili lungo tutta una serie di sedili sul pullman. Chiazze di sangue sulla pancia del viadotto che scorre su di noi alto 15 metri. Intorno tutto un compresso silenzio di chi va operando, raccogliendo, analizzando, lavando, enumerando, circoscrivendo. Silenziosi e pallidi negli uffici, con passi in giro senza senso, i poliziotti dell’edificio le cui finestre sono andate in frantumi, le cui pareti sono crepate, i cui arredi e cose si sono disperse e mischiate come in un gioco di Shanghai.

Un silenzio che dura attimi eterni e che, alla fine, viene screziato da grida lontane, sempre più vicine, sempre più forti e folte: Allah, Bashar, Siria u bas. Alla fine saranno migliaia, donne in testa, urlanti come menadi della tragedia greca: tra gli slogan per Bashar e la Siria si fanno largo, acute, le grida di queste donne. Sembra qualcosa di istintivo e immediato. Ma se ti avvicini senti un discorso articolato, in inglese quando ti riconoscono straniero, sul terrorismo dei veri Stati canaglia, sulla strategia del colonialismo, sull’obbrobrio delle tirannie islamiste, su Israele dietro a ogni guaio subito in mezzo secolo da questo paese, sull’irriducibilità delle scelte di un popolo antico, consapevole, coraggioso, civilissimo, buono. Sono sempre loro, le donne, che si fanno sotto per dare parole al dolore, alla rabbia, alla chiarezza delle cose. Come in America Latina, in Egitto, in Libia, in Iraq, sono le donne a dare corpo alle contraddizioni vere, ad assumersi l’avanguardia. Meglio degli altri, sanno sulla pelle cosa è in gioco.

Avevo visto gente sminuzzata dalle bombe, incendiate dal fosforo, fucilata, segnati a vita dalla tortura, bambini serbi morenti in incubatrici spente dalle bombe di D’Alema, devastazioni senza fine, corpi sbiancati, svuotati di sangue, estratti dalle macerie, un reporter amico iracheno, Ayub, frantumato da un missile a Baghdad. Ma quanto mi schiaffeggiava la vista nella carneficina di Al Maidan non aveva confronti. Il cervello va in corto circuito per eccesso di input al di là del concepibile, del sopportabile. Una consapevolezza prevale: ci sono, ci sono gli Untermenschen, i sottoumani, e non sono solo quelli che inventarono il termine, oggi sono coloro che allora erano dall’altra parte. Ci si attacca alla telecamera come a un salvagente e si gira, si gira. Si gira fino ai funerali, immediati nel giorno dopo per norma islamica, dove appaiono imam, preti cristiani, ministri, notabili e la solita folla immensa, composta davanti alla fila estenuante delle bare col vessillo nazionale, ma che divampa in frenetiche invocazioni e anatemi alla chiusura della cerimonia. All’interno della moschea uomini in ginocchio e a mani profferte piangono su bare, bandiere e immagini dei derubati della vita. Sembrano il trailer di un film: “Siria”.

Viaggiando per città e borghi, vedendo dalla macchina scorrere bancarelle zeppe di commestibili, meravigliosa e variegata verdura, lucenti montagne di frutta, pane, dolci, carni e turbe che vi si avvicendano, passeggiando per Hamidiyeh, il più bel suq del Medioriente, scintillante di stoffe e gioielli, non pare che abbia causato gravi effetti la grandinata di sanzioni che, impedite all’ONU da Russia e Cina, vengono illegalmente imposte dai vari governi e organismi dell’Alleanza dei Necrofori, Usa, Ue, Regno Unito, Francia. E dalla Lega Araba, quell’Idra dalle teste coronate, scudiscio di serpenti agitato in prima persona dall’obeso despota qatariota, Hamad bin Khyalifa Al Thani, espressione morfologica di ottusa scaltrezza, tracotanza e corruzione.

Fattosi capobastone dell’offensiva vandeana, accanto ai più accorti sauditi, questo protagonista dell’involuzione araba, dopo aver contribuito con denari, mezzi, media e lanzichenecchi al disfacimento della Libia, ora è il più vociferante sostenitore di un intervento militare arabo in Siria. L’emiro, finto per un po’ di essere antisraeliano, se ne è rivelato alleato cruciale diventando ufficiale pagatore del mercenariato islamista e di quei Fratelli Musulmani, cavallo di Troia da sempre degli interessi occidentali, che da oltre mezzo secolo sognano la rivincita contro il nazionalismo antimperialista e antisraeliano arabo, socialisteggiante e laico, dei Nasser, Saddam, Assad, Gheddafi, Buteflika, Boumedienne, El Hamdi (Yemen), Nimeiry. Ma se bancarelle e negozi sono affollati e Damasco soffoca nello smog di un traffico di livello romano, caotico, ma civile, rari clackson e mai i vituperi e le risse tra conducenti che rendono bruti noialtri, nel mio albergo moresco, evocazione fedele delle Mille e una notte, tra fontane, ceramiche, lucidi ottoni da caffè, piante lussureggianti, sono l’unico ospite per una cinquantina di stanze. Ma nessuno del personale è stato licenziato causa crisi e tutti mi circondano di quell’esuberanza di attenzioni e sorrisi che normalmente verrebbe distribuita tra tanti clienti. Il personale è arabo, curdo, druso, cristiano, musulmano. Fanno come se l’albergo fosse pieno: lucidano ottoni, curano fiori, spazzano e lavano, ti portano ogni due per tre il ciai, il tè alla menta che rende acquetta ogni Twining’s. Nulla deve essere fuori posto quando torneranno gli ospiti. Perchè torneranno nella Siria vittoriosa. Intanto curano l’amicizia con me: dopo le domande e il racconto relativi a figli, scuola, ricordi, immancabile la deflagrazione della rabbia, più contro i media mendaci e traditori, di cui, evoluti, hanno conoscenza diretta, che non contro il nemico sul terreno e alle porte. Primo della lista, senza fallo, l’emiro del Qatar, minaccia di annichilimento di tutto ciò che è stato conquistato, negli anni, nei secoli. Hanno naso fino, i siriani. Memori del colonialismo, feroce ma vinto, ne sanno riconoscere all’istante la ricomparsa, e i quisling che lo agevolano. Tra di loro, a ogni attenta osservazione, questi ragazzi appaiono una famiglia solidale e affettuosa. Romperla. ottenebrarli gli uni contro gli altri, è l’arma dell’Impero, prima che intervenga il complesso militar-industriale, motore dell’inciviltà neoliberista e della soluzione finale.

Dell’accanimento sanzionatorio contro la Siria, mirato come in Iraq, Iran, Libia, a piegare le ginocchia della resistenza popolare attraverso guerre tra poveri e frustrazioni da imputare al governo, l’effetto più drastico e visibile è la scomparsa del turismo, seconda voce dell’economia siriana. Poi ci sono, innumerevoli, enormi edifici popolari non finiti. Scheletri scarnificati, dalle occhiaie nere, a significare il solito furto dei fondi sovrani all’estero, il crollo delle importazioni, la paralisi dell’edilizia, industria portante. Se il paese è, grazie a una florida agroindustria, largamente autosufficiente sul piano alimentare, se le tradizionali produzioni siriane di tessili non abbisognano di interventi esteri per soddisfare i bisogni interni, il turismo verso le ineguagliabili ricchezze storiche e bellezze naturali, ottimamente preservate, è stato la prima vittima della sobillazione, dell’irruzione di gangster armati e, più che altro, dalla fanfara mediatica impegnata a trasformare una biscia in cobra. Ne soffrono pesantemente tutti i servizi attinenti all’ospitalità, ai trasporti, alla ristorazione, ai prodotti dell’elegante artigianato arabo. Si farà più grave, in mancanza di una sconfitta della cospirazione colonial-reazionaria, la carenza dei carburanti e dei combustibili nafta. La Siria, modesta produttrice di petrolio, ne ha quanto basta per il consumo interno, ma ha perso i pur redditizi sbocchi esterni e ha una limitata capacità di raffinazione. Il venire meno di questi idrocarburi avrà l’effetto desiderato e a suo tempo conseguito in Iraq (ricordate il milione e mezzo di vittime dell’embargo occidentale?) e in Libia: la paralisi della vita sociale ed economica: difficoltà a raggiungere il posto di lavoro, le strutture sanitarie e dell’istruzione, i mercati, i famigliari. L’alleanza con l’Iran, quella con mezzo Libano, i traffici con la Giordania, ostile, ma attenta ai suoi interessi, il sostegno di Russia e Cina hanno finora impedito conseguenze gravi. Ma sarebbe ora che negli ambienti antiguerra mondiali ci si muovesse per denunciare e bloccare il terrorismo genocida delle sanzioni e degli embarghi finalizzati non, come sarebbe in Palestina, a punire gli oppressori di un popolo, ma a sfiancare chi agli oppressori e assalitori resiste, minandolo nella salute, nel morale e nella lealtà al proprio paese.

Ancora un ospedale, quello militare della capitale. Ne è direttore il generale Maurice Mawad, un cristiano che esordisce chiedendosi perché sia tanto flebile la voce del papa sulle tragedie che vanno sconvolgendo i popoli arabi. Denuncia, con veemenza dettata dalla partecipazione diretta al compianto per commilitoni al servizio del paese, il vergognoso occultamento da parte dei media occidentali, dei militari caduti sotto il fuoco dei rinnegati, figli del popolo siriano sacrificatisi in sua difesa. Si chiede cosa avrebbe fatto Obama se la comunità musulmana fosse insorta contro lo Stato e avesse chiamato a rinforzo, oltre ai narcotrafficanti messicani e colombiani, sanzioni e “operazioni speciali” russe e cinesi. Quando gli chiedo se non sentisse la Siria isolata nel contesto geopolitico e geografico, con nemici a quasi tutti i confini e nella sedicente “comunità internazionale”, citati gli scontati amici russi, cinesi, iraniani, perfino iracheni del regime scita, ribadisce un principio – ci sono ostili i governi, non i popoli – che è tanto vero nel mondo del 99% contro l’1%, quanto è deformato dai tiranni oligarchici dei media.

Riprende il concetto anche Elias al Mourad, presidente dell’Unione dei Giornalisti ed ex-direttore del quotidiano del Baath, quando afferma che un governo può resistere se isolato nel contesto internazionale, vedi Cuba, ma non resiste un giorno se isolato dal proprio popolo e se non ne sostiene in primis la componente più bisognosa. Con Elias mi si offre anche l’occasione per entrare nel merito della situazione istituzionale e delle riforme in corso. “Ci sono nove partiti nel paese e nel parlamento, due sono comunisti, tutti sovvenzionati per l’organizzazione, la promozione, le pubblicazioni. Solo il Baath si autofinanzia. Noi chiediamo a chiunque voglia creare un partito di presentare 7000 firme raccolte, in proporzione alla popolazione, in tutte le provincie. E’ vero che il Baath aveva un ruolo preponderante, ma questo era una necessità per la nascita e crescita del paese, per garantire unità e resistenza alle costanti aggressioni esterne. La maggioranza dei consensi non ci è mai venuta meno e posso assicurare che gli strumenti della comunicazione in mano allo Stato non sono mai stati unilaterali e mendaci come quelli che, da voi, pretendono di raccontarvi la realtà".

Ora, mi spiega ancora il giornalista, "è al lavoro per la nuova costituzione un comitato di 27 persone. Vi sono rappresentati il Baath e tutte le opposizioni politiche, le varie religioni, i curdi, più il meglio dei nostri giuristi. Il progetto verrà sottoposto al parlamento espresso dal libero e controllato voto. Il parlamento proporrà modifiche, vi sarà la presa d’atto del presidente e poi la legittimazione col voto popolare. Rimangono tre punti irrinunciabili: il ruolo del presidente, il laicismo e pluralismo religioso, il rapporto conflittuale con Israele. E conclude con un riferimento evangelico: “Gesù aveva appena 12 apostoli e ne bastò uno che prese i soldi e cambiò la storia. Noi in Siria siamo 23 milioni, e di Giuda ce ne sono pochi”.

La larga strada tra villaggi e nulla nerastro di un deserto che ha reso forti questi abitanti, a volte duri, sempre in viaggio e alla ricerca tra loro per millenni, in cui si ergono robuste e indomabili testimonianze di intelligenze lontane nel tempo, confuse nell’aria vibrante con monti pietrosi, è in buona parte la stessa che da Amman porta a Baghdad. E’ la via di Damasco, delle rivelazioni che determinano scatti storici. L’ho fatta tante volte in tanti decenni, quando Damasco e Baghdad rilucevano di forza, giustizia, dignità. Qualità intollerabili per i licantropi che, dalla loro notte della ragione e del terrore, si sono avventati su queste strade dell’ umanità in cammino. Nel 1991 della “Tempesta nel deserto”, quando in tre mesi gli Usa lanciarono sull’Iraq più bombe che sulla Germania nell’intero secondo conflitto mondiale; negli anni ’90 quando il cappio dell’embargo giustiziava 1,5 milioni di innocenti, di cui 500mila bambini; nel 2003 quando con “Colpisci e terrorizza” il paese fu cannibalizzato, ma poi mai ricondotto alla sottomissione, se non a quella di una cricca di vendipatria. E sempre ritrovo nel respiro il profumo di datteri, tè, olive, montone abbrustolito, carbonella, mattoni di fango, calda umanità, un cordone ombelicale fatto di sorrisi, ricordi, comunanza, che mi lega a queste genti come l’assetato è vincolato all’oasi nel deserto. Che la Siria, che i di gran lunga migliori arabi vivano. Disse Maxim Gorky, il grande scrittore rivoluzionario russo: “Ognuno, mio amico, ognuno vive per qualcosa di meglio a venire. Ecco perché dobbiamo rispettare e essere premurosi verso ogni uomo. Chissà cosa ha dentro, perché nacque e cosa potrà fare”. Adam Mohammed me l’ha ripetuto all’araba: “Devi ritenere buono chiunque incontri. Fino alla prima esperienza negativa”.

Venivano dall’antica Ugurit, a fianco dell’odierna Lattakia, i fenici che depositavano sulle spiagge della Trinacria offerte di beni preziosi, alimenti rari e porpora, benessere del dentro e del fuori. Prendevano in cambio, zinco, ferro, zolfo. E ne scaturivano scambi a livelli altri, di poesia, industria, scienza. E altre comunità, più vaste e colorite. Da quelle coste, poi, qualcuno del nostro giro ritenne opportuno lanciare un Cartago delenda est. Incorreggibili e ingrati, da quelle coste noi oggi rispondiamo ancora con il ferro, ma col ferro dell’offesa, che non costruisce ma porta morte. Cosa c’importa se quello Stato, in cui sono interrati i semi della nostra conoscenza, non corrisponde millimetricamente alle configurazioni sociali che vagheggiamo. E’ un problema nostro. Importa che una nazione, portatrice di valori umani superiori ai nostri e quindi garante del progresso umano, laddove da questa parte ce ne sono gli affossatori, sia sotto attacco dalle forze della fine del mondo. E se anche la fine del mondo sta scritta, inesorabile, nel firmamento, non vale la pena battersi contro i mostri, i draghi che, già prima dell’uomo, impedivano l’evoluzione verso l’armonia? Non vale la pena abbellire un eventuale epilogo lanciando sulle fauci del mostro missili di dignità? Qualcuno nel cosmo lo deve sapere e portare avanti.
Sennò, cosa ci stiamo a fare?

Diecimila morti, una popolazione traumatizzata, un’infrastruttura grandemente distrutta, uno Stato disintegrato: ecco il risultato della guerra condotta da Usa e Nato per saccheggiare le ricchezze della Libia e ricondurla al dominio coloniale. Ora viene apertamente preparata la guerra contro Siria e Iran, paesi strategicamente importanti e ricchi di risorse minerali che conducono una politica indipendente e non si sottopongono agli ordini delle potenze occidentali. Un’aggressione Nato alla Siria o all’Iran può portare al confronto diretto con Russia e Cina, con conseguenze inimmaginabili.
Con costanti minacce di guerra, la collocazione di forze militari ai confini di Siria e Iran, come con azioni terroristiche e di sabotaggio eseguite da reparti speciali infiltrati, gli Usa e i paesi Nato impongono a questi Stati una condizione di emergenza che vorrebbe sfiancarli. Cinicamente e con disprezzo dei diritti umani gli Usa e l’Unione Europea tentano con le sanzioni di paralizzare gli scambi commerciali e finanziari di questi due paesi. L’economia di Siria e Iran viene fatta precipitare in una crisi acuta che faccia aumentare la disoccupazione e peggiori drasticamente i rifornimenti di beni essenziali. Eventuali conflitti sociali ed etnici interni ne devono risultare accentuati, se ne deve sviluppare una guerra civile, allo scopo di creare pretesti per un intervento militare da lungo tempo programmato. A questa strategia delle sanzioni e della pressione bellica partecipano l’Unione Europea e il nostro governo.
Facciamo appello ai cittadini, ai partiti, ai sindacati, ai movimenti pacifisti, alle Chiese perché si oppongano coerentemente a questa politica di guerra.
Chiediamo al nostro governo
- Di sospendere immediatamente e senza condizioni le misure sanzionatorie contro Siria e Iran;
- Di affermare che non parteciperà in alcun modo a una guerra contro questi Stati e che non consentirà l’utilizzo di installazioni nazionali per un’aggressione Usa e Nato;
- Di impegnarsi a livello internazionale per porre termine alla politica dei ricatti e delle minacce di guerra contro Siria e Iran.
I popoli di Siria e Iran hanno il diritto di decidere da soli e sovranamente l’ordine politico ed economico della propria società. Il mantenimento della pace esige che si rispetti in modo assoluto il principio della non interferenza.
Fulvio Grimaldi

Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2012 ... masco.html
Lorenzo Lenzi
 
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Re: NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vis

Messaggioda Lorenzo Lenzi » 02/02/2012, 11:39

Un appello contro i preparativi della guerra all’Iran e alla Siria
Scritto da Bernd Duschner, Associazione di Amicizia con la Serbia, Pfaffenhofen, Germania.
Tradotto e diffuso da Fulvio Grimaldi

Sempre più concrete e minacciose si fanno le probabilità che la macchina di morte che ha infierito sulla Jugoslavia, sull’Afghanistan e sull’Iraq, e che ha appena finito di devastare la Libia, si scagli contro altri paesi sovrani. Paesi riottosi ad allinearsi ai persistenti progetti di Nuovo Ordine Mondiale, ma la cui sottomissione è decisiva per rilanciare il dominio geopolitico degli Usa e della Nato in Asia e nel mondo intero. La profonda crisi economica ma anche di consenso sociale che sta attraversando l’Occidente - e la necessità di impedire ad ogni costo un riaggiustamento degli equilibri planetari a favore di nuove forze emergenti - rende ancora più imminente questo pericolo.
La guerra psicologica, multimediale e ideologica è in effetti già cominciata e ha già messo in campo le armi della disinformazione e della criminalizzazione dell’avversario ma ha anche già proiettato sul terreno i primi corpi d’elite. Questo appello, che invitiamo a sottoscrivere, è stato originariamente lanciato ai primi di gennaio in Germania, paese nel quale ha raccolto l’adesione di 5 parlamentari nazionali. Il testo è stato pubblicato e diffuso in molte lingue.
Sul blog Freundschaft mit Valjevo e.V. la versione originale e le diverse traduzioni [DL].

Fermare i preparativi di guerra! Mettere fine all’embargo!
Solidarietà con il popolo iraniano e siriano!

Decine di migliaia di morti, una popolazione traumatizzata, un’infrastruttura largamente distrutta e uno Stato disintegrato: questo il risultato della guerra condotta dagli Usa e dalla Nato per poter saccheggiare la ricchezza della Libia e ricolonizzare questo paese.
Ora preparano apertamente la guerra contro l’Iran e la Siria, due paesi strategicamente importanti e ricchi di materie prime che perseguono una politica indipendente, senza sottomettersi al loro diktat. Un attacco della Nato contro la Siria o l’Iran potrebbe provocare un diretto confronto con la Russia e la Cina – con conseguenze inimmaginabili.
Con continue minacce di guerra, con lo schieramento di forze militari ai confini dell’Iran e della Siria, nonché con azioni terroristiche e di sabotaggio da parte di “unità speciali” infiltrate, gli Usa e altri Stati della Nato impongono uno stato d’eccezione ai due paesi al fine di fiaccarli.
Gli USA e l’UE cercano in modo cinico e disumano di paralizzare puntualmente con l’embargo il commercio estero e le transazioni finanziarie di questi paesi. In modo deliberato vogliono precipitare l’economia dell’Iran e della Siria in una grave crisi, aumentare il numero dei disoccupati e peggiorare drasticamente la situazione degli approvvigionamenti della loro popolazione.
Al fine di procurarsi un pretesto per l’intervento militare da tempo pianificato cercano di acutizzare i conflitti etnici e sociali interni e di provocare una guerra civile. A questa politica dell’embargo e delle minacce di guerra contro l’Iran e la Siria collaborano in misura notevole l’Unione europea e il governo italiano

Facciamo appello a tutti i cittadini, alle chiese, ai partiti, ai sindacati, al movimento pacifista perché si oppongano energicamente a questa politica di guerra.

Chiediamo al governo italiano:

- di revocare senza condizioni e immediatamente le misure di embargo contro l’Iran e la Siria
- di chiarire che non parteciperà in nessun modo a una guerra contro questi Stati e che non consentirà l’uso di siti italiani per un’aggressione da parte degli Usa e della Nato
- di impegnarsi a livello internazionale per porre fine alla politica dei ricatti e delle minacce di guerra contro l’Iran e la Siria.

Il popolo iraniano e siriano hanno il diritto a decidere da soli e in modo sovrano l’organizzazione del loro ordinamento politico e sociale. Il mantenimento della pace richiede che venga rispettato rigorosamente il principio della non-ingerenza negli affari interni di altri Stati.

Per sottoscrivere l'appello: noguerrasiriairan@libero.it
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Re: NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vis

Messaggioda Lorenzo Lenzi » 14/05/2012, 23:07

ottimo per capire cosa sta avvenendo in Siria
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ATTACCO NATO ALLA SIRIA IMMINENTE?

Messaggioda domenico.damico » 16/06/2012, 14:58

UN ALTRO PUNTO DI VISTA, DIVERSO DA QUELLO PRE-CONFEZIONATO DAI MEDIA OCCIDENTALI (quasi tutti).

Ultimo articolo di Fulvio Grimaldi, da poco tornato dalla Siria.

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/

Cosa dicono i media in Siria

http://www.youtube.com/watch?v=129VxyhR ... r_embedded

C'è una manifestazione oggi a Roma.
Chissà se qualcuno in tv riferirà, e in che modo...

http://3.bp.blogspot.com/-S-V070qO9BI/T ... ria+16.jpg
Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì.
I quali si chiederanno cosa non viene apprezzato del loro ottimismo.
Ennio Flaiano
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Re: NORDAFRICA E MEDIORIENTE: venti di guerra e punti di vis

Messaggioda Lorenzo Lenzi » 24/06/2012, 23:36

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